martedì 3 aprile 2018

Il filo nascosto (Paul Thomas Anderson, 2017) – Recensione


L'ultimo film di Paul Thomas Anderson è, tra le altre cose, l'ennesima dimostrazione che non bisogna mai leggere il riassunto della trama di un film. «Di cosa parla Il filo nascosto? Ha vinto un sacco di premi...» «Mah... Parla di uno stilista d'alto bordo che confeziona vestiti di lusso nella Londra degli anni Cinquanta e si innamora di una ragazza acqua e sapone... Probabilmente uno di quei drammi storici pieni di melensaggini. Che ne dici invece di Metti la nonna in freezer?» Ok, magari non è esattamente la conversazione tipica che precede una serata al cinema, ma quante volte abbiamo rinunciato a una visione perché scoraggiati da una sinossi raffazzonata che pretendeva di sintetizzare in due parole qualcosa che, per dirla con David Lynch, pur nascendo su carta «non può essere ritradotto in parole»?

Ci sono almeno due motivi per cui nessuna sinossi potrà mai rendere giustizia a questo film. Il primo è che la trama, anche se corrisponde grosso modo alla descrizione fatta sopra, è talmente imprevedibile nel suo svolgimento da costringerci a rivedere completamente le nostre iniziali supposizioni. Quella che sembrava un'eccentrica storia d'amore come se ne vedono tante, finirà per assumere contorni talmente insoliti da diventare una vera e propria sfida alla comprensione e all'empatia dello spettatore. Persino il motivo al pianoforte composto da Jonny Greenwood, che nei primi tre quarti di film conferisce alla storia un'aura di struggente malinconia, nell'ultimo quarto irradia invece un che di grottesco e morboso pur senza variare di una sola nota.

Il secondo motivo riguarda la capacità straordinaria di P. T. Anderson di infondere un senso d'avventura anche al più banale degli avvenimenti. Personalmente non ho mai nutrito una grande passione per il mondo della moda e dell'haute couture, ma starei ore a guardare lo stilista Reynolds Woodcock (Daniel Day-Lewis) aggiustare le pieghe della gonna della principessa del Belgio, infilare da parte a parte l'ago nel tessuto grezzo che funge da canovaccio per l'abito finale, adagiare pezzi di stoffa colorata sulle spalle un po' troppo pronunciate della sua modella e futura compagna Alma. Le sue dita snelle si muovono come se avessero più dimestichezza con il tessuto che con la pelle umana, le sue labbra si chiudono intorno alla superficie quasi impercettibile di uno spillo come nessuna donna ha mai avuto il privilegio di essere baciata. Il metro avvolgibile è l'autostrada sulla quale la sua creatività si lancia alla ricerca della proporzione perfetta, con lo stesso controllato furore con cui percorre le strade buie a bordo della sua Bristol rossa.


La colazione, che per Reynolds rappresenta il momento più importante e produttivo della giornata, è un rito religioso che viene officiato alla presenza della sacerdotessa Cyril, la sua Tal dei Tali ("sorella" per i comuni mortali) che tutto manovra e a tutto presiede con un perfetto equilibrio di autorevolezza e discrezione. L'unico rumore ammesso nella quiete mattutina è quello della stilografica sulla carta; a generare irritazione e angoscia, se non a far naufragare un matrimonio, è sufficiente il crocchiare di una tartina sotto la lama del coltello, il crepitio del guscio di un uovo, il clangore di una forchetta deposta sul piatto con troppa irruenza. Impossibile quantificare il numero di relazioni che si sono penosamente arenate su quella tavola imbandita di bacon, salsicce, porridge con panna (che sia densa, mi raccomando!), pan tostato sormontato da un uovo all'occhio di bue (non troppo cotto, per carità!), burro e marmellata (assolutamente non di fragole). Finché non è arrivata lei.

(qualche spoiler nel seguito)

Il primo incontro è una prefigurazione esatta di quella che sarà la loro relazione. Alma, con il suo rossore sfrontato e il suo incespicare maldestro che rischia di mandare in frantumi brocche e tazzine, entra nella vita regolata di Reynolds come un tornado. Il sequestro del foglio con le ordinazioni chiarisce subito quanto sia importante per Reynolds essere esaudito nei propri desideri prima ancora che questi vengano espressi, quando però Alma in risposta a un invito a cena gli consegna con inaspettata prontezza un secondo foglio con il numero di telefono gli sta inviando l'implicito messaggio che, se deciderà di mettersi a completa disposizione del suo hungry boy, non sarà certo per debolezza o passività, ma per scelta. Ammessa in seguito all'atelier dove il grande stilista concepisce e confeziona le sue opere d'arte, Alma non sa se deve sentirsi una cameriera introdotta a corte o una vacca alla pesa del bestiame. Il suo corpo è il veicolo dell'arte di Reynolds, eppure la inquieta profondamente quella sequenza interminabile di numeri che Cyril, con sguardo impietoso e commenti taglienti, trascrive diligentemente sul suo taccuino. Il suo esiguo seno viene fatto oggetto di un interesse scientifico, quasi clinico: «Il mio compito è dartene uno... se lo riterrò opportuno.»


Alma accetta questi rituali con docilità, anzi è felice di abbandonare i tediosi ricevimenti in compagnia dell'alta società per sfrecciare nelle strade con Reynolds, o svegliarsi nel cuore della notte per assecondarlo nelle sue estenuanti sessioni sartoriali e soddisfare così il suo demone creativo, incoercibile come un appetito sessuale. Ma allo stesso tempo intuisce che per tenerselo stretto non è sufficiente accontentare ogni sua richiesta, adattarsi alle sue nevrosi, difendere il suo ego dall'ingratitudine dei clienti. Molte prima di lei hanno percorso quella stessa strada, ma nessuna di loro ha potuto evitare la fatidica domanda di Cyril, «Reynolds, vuoi che la mandi via?», e d'altra parte Alma è troppo fiera per accettare di interpretare tutta la vita la parte della marionetta senza ricevere in cambio una contropartita. La chiave dell'equilibrio è il controllo, esercitato per mezzo della sofferenza, propiziato da un atto di magia – la lacerazione di un piccolo lembo di stoffa con un grande significato apotropaico. Un controllo che si muove sul filo fragilissimo che separa l'accudimento dalla violenza, l'amore dalla dipendenza patologica, la vita dalla morte. Ed eccoci milioni di anni luce fuori strada rispetto alla destinazione che ci eravamo immaginati.

Abbiamo detto della complicata relazione tra Reynolds e Alma, eppure è come se non avessimo raccontato niente, perché ogni sequenza, al di là della storia che racconta, è una fonte inesauribile di emozione, avventura, stupore, come un tessuto nella cui fodera sia stata cucita una fotografia, un gioiello, un amuleto portafortuna. E così un incidente come il danneggiamento di un abito, al quale nella vita reale non presteremmo che pochi secondi di attenzione, diventa un avvenimento della massima importanza, e davvero possiamo sentire l'angoscia muta delle cucitrici mentre rimontano alla svelta i tavoli da lavoro, srotolano lenzuoli di carta velina, telefonano a casa per avvisare che non torneranno prima del mattino, e riprendono la faticosa attività di cucitura con addosso lo sguardo inflessibile della padrona di casa. Il lento movimento circolare che la macchina da presa compie attorno al tavolo conferisce alla scena una dimensione solenne, quasi sacrale.


Perfino i viaggi in auto di Reynolds non sono dei semplici spostamenti, ma sembrano svolgersi in un'altra dimensione, con quell'insolito punto di vista di una cinepresa che oscilli attorno a un'asta flessibile fissata al retro della vettura, e quel contrasto straniante tra l'abitacolo illuminato e le ombre degli alberi che si muovono sullo sfondo. Ma quella che per me è la scena maestra si svolge nella maestosa hall di una villa in cui si stanno celebrando i festeggiamenti per il nuovo anno, mentre Reynolds dall'alto di una balconata vaga con lo sguardo sul caos indescrivibile che si stende sotto di lui alla spasmodica ricerca di Alma. Quando finalmente la individua tra la folla e si getta d'impulso nella sua direzione, è costretto ad attraversare un oceano di volgarità, una bolgia umana completamente fuori controllo che lo urta da ogni parte, un girone infernale di maschere orribili e travestimenti grotteschi che sono l'esatto contrappasso di tutto ciò che nella sua vita ha sempre rifuggito e detestato – soltanto per ricongiungersi alla sua Alma. Difficile raccontare con maggior forza emotiva le distanze che i protagonisti sono disposti a coprire pur di proteggere quel legame voluto dalle stelle.

Anderson riesce ad ottenere da ogni attore, anche il più marginale, una performance irripetibile. I duelli di parole e sguardi tra Reynolds e Alma sono da antologia. Daniel Day-Lewis tiene con il fiato sospeso semplicemente deglutendo un boccone, rifiutando una tazza di tè, brandendo una forchetta. Vicky Krieps, la fiammeggiante Alma, tra una battuta e l'altra interpone versi gutturali di una tale spontaneità che nessuna sceneggiatura potrebbe contenerli, e quando con studiata volgarità fa precipitare da inedite altezze il fiotto d'acqua di una caraffa si resta addirittura ipnotizzati. Lesley Manville, nei panni della sorella di Reynolds, è una maschera di pragmatismo e buone maniere cui basta inarcare le sopracciglia per incutere soggezione nel prossimo. E Harriet Sansom Harris, che interpreta la parte secondaria della ricca ereditiera verdevestita Barbara Rose, passa dalla disperazione al pianto sommesso al riso isterico come se davvero stesse andando incontro a un crollo emotivo, riuscendo ad esprimere nell'arco di pochi secondi tutta la fragilità di una donna sgraziata e psicologicamente instabile condannata alla luce dei riflettori.

Occorrono molteplici visioni per apprezzare a fondo ogni dettaglio. A voler proprio trovare un difetto, si potrebbe eccepire che la sezione centrale è leggermente troppo lenta; ma si finisce per apprezzarla per contagio, come si apprezzano i difetti delle persone che si amano. Un film straordinario, inesauribile, da portare sull'isola deserta.

2 commenti:

  1. Al solito la migliore recensione in commercio ;)

    e sono molto contento che anche te hai trovato come scena più straordinaria quella della festa

    una cosa incredibile, di sicuro tra le più belle sequenze che ci regalerà questo anno

    io avrei finito il film con loro su quel muro

    ma Anderson aveva in mente un incredibile colpo di coda

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    1. Lei mi confonde :)
      È vero, quella scena poteva essere il culmine del film, oltretutto a mia memoria è l'unico momento in cui Anderson usa la camera a mano, per cui ci stava benissimo come climax, un po' come alla fine di Ida. E invece ci aspettava ancora la scena della frittata... brividi

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