venerdì 13 luglio 2018

Il sacrificio del cervo sacro (Yorgos Lanthimos 2017) - Recensione


Lanthimos torna nelle sale con quello che è forse il suo film più accessibile, oltre che quello in cui si riconoscono meglio le sue ispirazioni e i suoi maestri. Per la sceneggiatura di Sacrificio il regista greco si è avvalso ancora una volta della fruttuosa collaborazione di Efthymis Filippou, che in passato ha reso possibile lavori come Kynodontas, Alps e The Lobster, esempi paradigmatici di quella new wave greca nata alla fine degli anni Duemila che è probabilmente una delle correnti cinematografiche più sorprendenti che abbiano visto la luce nel nuovo millennio.

Al centro di Sacrificio c'è una famiglia benestante, lui cardiologo (Colin Farrell) lei oftalmologa (Nicole Kidman) con due figli. Quando questi ultimi iniziano a manifestare i sintomi di una misteriosa malattia degenerativa senza che alcun luminare possa porvi rimedio, i genitori cominciano a prendere sul serio i vaticinî di un ragazzino che scopriamo in seguito essere il figlio di un paziente del padre non sopravvissuto a un intervento a cuore aperto. Latore di una giustizia superiore che ad ogni crimine fa corrispondere un tributo ad essa commisurato, la richiesta (o la profezia) del ragazzino è molto semplice: la maledizione avrà fine soltanto quando il padre sacrificherà un membro della propria famiglia come risarcimento per l'errore commesso in sala operatoria.

(Allerta spoiler)

L'inarrestabile progressione del morbo sul corpo dei due ragazzi fa emergere un'altra malattia, meno visibile ma ben più radicata e profonda, quella di una famiglia tenuta insieme dalla convenienza e dall'opportunismo anziché dall'amore, e in cui l'odiosa domanda "voglio più bene a mamma o papà?" viene pronunciata non da un bambino che sta affrontando il percorso tortuoso e accidentato della crescita, ma, in un gustoso paradosso, da un genitore, che ne dà la formulazione ben più inquietante, "quale dei miei due figli sacrificherei più volentieri?" Nella abominevole costellazione familiare immaginata da Lanthimos ogni confine tra il mondo dell'infanzia e quello degli adulti è annullato, ogni tabù infranto, e il comportamento dei suoi membri è dettato da un becero pragmatismo. I padri confidano ai figli segreti irripetibili, fanciulle appena uscite dall'infanzia discorrono senza pudore del proprio incipiente ciclo mestruale, e il sesso costituisce merce di scambio anche tra amici di vecchia data, sempre che si possa definire amicizia una reciproca erogazione di favori.

In questa visione il corpo umano si riduce a un marasma di pulsioni e bisogni fisiologici, mentre le emozioni, anziché costituire la materia prima delle interazioni umane, svolgono la mera funzione di facilitare il soddisfacimento delle necessità primarie, quasi fossero una sorta di formalità da sbrigare per poter realizzare i propri scopi. E così si passa senza soluzione di continuità da una tranquilla serata trascorsa sul divano a guardare Ricomincio da capo senza abbozzare il benché minimo sorriso a un'impacciata avance sessuale priva di qualsiasi appeal erotico, dal caffè consumato frettolosamente al tavolino di un bar alla pugnetta anaffettiva e meccanica praticata nell'abitacolo di un'auto. Neppure la morte riesce a distogliere le persone dal più bieco calcolo utilitaristico.


Ma a soffrire è sempre soltanto lo spettatore, perché chi vive al di là dello schermo non fa una piega di fronte alla disumanità e alla violenza, neppure coloro che per età anagrafica si vorrebbero innocenti; ed è qui, forse, che il film rischia di perdere il coinvolgimento dello spettatore. Kynodontas era incentrato su una famiglia non meno disfunzionale, ma lo slancio ingenuo della protagonista verso la libertà e l'emancipazione ce la rendeva in qualche modo umanamente vicina; nel Sacrificio, invece, non si produce il più piccolo squarcio nel velo di crudeltà che ricopre ogni cosa, anzi, ciascuno rimane ostinatamente fedele al ruolo che gli è stato assegnato fin da principio. Non resta altro che seguire la catena di eventi fino al fatale epilogo, secondo la scaletta preannunciata con largo anticipo da chi attende con fiducia che la legge del taglione faccia il suo corso. L'impressione che se ne trae è quella di un accanimento, un compiacimento del male, un'immersione bulimica nella violenza psicologica che, più che scandalizzare, finisce per esasperare.

Ciò mette in luce un altro aspetto potenzialmente problematico del cinema di Lanthimos. I suoi film richiedono sempre uno sforzo di comprensione dei meccanismi che regolano l'universo della storia – la confraternita segreta di Alps, il nucleo familiare di Kynodontas, la società zoomorfa di The Lobster e ora il consorzio umano di Sacrificio. Ma in che rapporto stanno questi universi eccentrici e il mondo che noi spettatori abitiamo? Esiste ancora, oltre gli spazi angusti del microcosmo in cui si svolge la storia, un mondo governato da leggi tradizionali, oppure la logica perversa che guida il comportamento dei protagonisti ha validità universale? The Lobster risolveva questa ambiguità mettendo in chiaro che la storia si svolgeva in un futuro distopico, mentre in Kynodontas a delimitare il confine tra i due mondi c'erano una barriera tangibile (il recinto che cingeva l'abitazione) ed una linguistica (il lessico famigliare escogitato dai genitori per soffocare ogni velleità non già di fuggire, ma anche solo di immaginare un mondo alternativo). In Sacrificio invece non è affatto chiaro se questo confine esista, e qualora esista, fin dove si estenda; chi è esterno alla famiglia può presentare analoghi sintomi di anormalità (ad esempio il collega anestesista con le sue sterili fantasie sessuali e la sua passione per i cinturini in acciaio) o viceversa ragionare come un essere umano autentico (come il direttore della scuola in cui studiano i figli, comprensibilmente a disagio di fronte alla pretesa del padre di stabilire quale dei due allievi sia oggettivamente il "migliore").

Il conflitto tra giustizia terrena e giustizia divina non fa che rafforzare questa ambiguità. Da una parte la vita sembra obbedire a leggi situate al di fuori dell'umana giurisdizione, e sulle quali la scienza e la medicina non possono nulla; dall'altra viene spontaneo chiedersi come il padre sia potuto sfuggire a un'incriminazione per omicidio, specialmente se si considera la dinamica non esattamente opinabile del delitto; perché è evidente che, come esistono ospedali chiese scuole e tavole calde, in questo mondo dovranno pur esistere anche tribunali e penitenziari. Pignoleria? Niente affatto, è lo stesso Lanthimos a spostare continuamente l'attenzione su questo confine, mettendo in discussione la definizione stessa di essere umano, e costringendoci a prendere coscienza di quegli aspetti patologici potenzialmente insiti in ogni famiglia, e perfettamente invisibili a chi ne fa parte. Con Sacrificio Lanthimos ha tentato forse per la prima volta di far comunicare questi due mondi così incommensurabilmente distanti, sguinzagliando l'Assurdo in giro per il mondo anziché rinchiuderlo in un compartimento a tenuta stagna. L'operazione è riuscita solo in parte, e molti nodi restano irrisolti. Chissà, forse un giorno sapremo che cosa succede quando il baule di Kynodontas, invece di rimanere sigillato per l'eternità, si spalanca; o forse, piuttosto, dovremmo esser grati di non averlo mai saputo.


A proposito invece di ispirazioni e maestri, a pochi sarà sfuggita l'analogia tra Sacrificio e i lavori di Michael Haneke, sia a livello di trama che di regia. Immediato il paragone tra la scena clou di questo film e quella, per me ancora più terribile e crudele, in cui Haneke decideva del destino del più giovane dei protagonisti di Funny Games, invitando lo spettatore a un macabro gioco di connivenza. Il fucile, il cerchio, il cappuccio, il salotto borghese, l'innocenza crivellata dalla violenza insensata che governa il mondo degli adulti – c'è proprio tutto, al punto che non sarebbe fuori luogo parlare di omaggio al regista austriaco. Omaggio che appare ancora più evidente se si mettono a confronto la vicenda del cardiologo di successo perseguitato dal figlio adolescente di un suo fu paziente e quella della famiglia Laurent in Niente da nascondere, braccata da un misterioso persecutore che altri non è se non l’incarnazione di un’antica colpa paterna. Hanekiane sono anche le inquadrature fisse che inchiodano senza appello i personaggi alle loro responsabilità, e hanekiano è l’algido understatement con cui aberrazioni e perversioni emergono da sotto la superficie liscia e imperturbabile di un’ostentata normalità familiare (“anestesia totale?” è l’invito che lei gli rivolge nell'intimità sessuale simulando la passività di un corpo in letargo: ed ecco che in un attimo riaffiorano alla memoria le indicibili fantasie de La pianista).

Non è tutto: entrambi i registi sacrificano volentieri l’abusata alternanza di campo e controcampo a favore di un’evidente asimmetria – o la macchina da presa inquadra insistentemente chi sta parlando in quel momento, lasciando la nostra immaginazione libera di raffigurarsi l’effetto che le parole producono sull'interlocutore (come quando il padre racconta al figlio un terribile segreto di gioventù), o al contrario tutto ciò che abbiamo è la reazione di chi ascolta, un reaction shot non preceduto dal rispettivo shot (come nella scena degli spaghetti di cui sotto). Non mancano le divergenze: alla messa in scena “realistica” di Haneke, Lanthimos preferisce un allestimento simbolico (anche se un controesempio viene subito in mente, il piccione che si intrufola nell'appartamento dei due anziani protagonisti di Amour), al punto che del cervo del titolo non rimangono che un vago ghirigoro sulla tappezzeria di un bar, e alcune composizioni che per simmetria ricordano il palco di un cervo (il maestoso albero nel parco, i letti d'ospedale, i lucernari gemelli nella camera da letto). Dove Haneke lascia che siano i corpi a parlare, Lanthimos non disdegna di accompagnare l’azione con una prepotente colonna sonora fatta di stridii, lamenti, composizioni corali da fine dei tempi (tra cui alcuni brani del compositore ungherese György Ligeti, già molto amato da Kubrick), anche se questa è una novità rispetto ai suoi film precedenti. Ed è proprio in questo allontanarsi dall'austerità del regista austriaco che la regia di Lanthimos si arricchisce di ulteriori inaspettate contaminazioni.

Birth di Jonathan Glazer.
Quando il ragazzino si stacca a morsi un brano di carne, ciò che udiamo è lo stesso raggelante suono metallico che rimbombava nella sperduta caverna del Grand Canyon in cui l’esploratore Aron Ralston, rimasto intrappolato sotto un macigno all'insaputa del mondo, si recideva i nervi del braccio con un coltello: il film era 127 ore, il regista l'adrenalinico Danny Boyle. Altre contrade altre masnade, eppure ancora una volta si avverte il sapore della citazione. L'indimenticabile inquadratura a picco sulle scale mobili, che per la sua irrevocabile fatalità rappresenta la vera chiave di volta del film, mi ha riportato alla memoria, forse a sproposito, una scena di Police Story in cui l’attore-stuntman Jackie Chan sollevava un criminale e lo lasciava cadere di faccia, appunto, sui gradini di una scala mobile: parte dell’azione era ripresa dal punto di vista vertiginoso di una telecamera “a piombo”, con l’effetto di rendere l’impatto ancora più micidiale, proprio come in Sacrificio. E come non citare Birth di Jonathan Glazer, anch'esso curiosamente incentrato sulla vicenda di un adolescente che turba la tranquillità di un nucleo familiare. In una scena ambientata in una sala da concerto gremita di spettatori, Glazer stringe l’inquadratura sul volto contratto della protagonista, interpretata dalla stessa Kidman, nella cui mente obnubilata sta mettendo radici il pensiero folle che il ragazzino non sia altri che la reincarnazione del suo defunto marito; ebbene, in Sacrificio Lanthimos mette in scena una analoga trasformazione, puntando l’obbiettivo dritto negli occhi luccicanti della Kidman mentre ascolta ipnotizzata un discorso farneticante a proposito del modo di mangiare gli spaghetti. Quasi lapalissiana, infine, l'associazione con l'ultimo film di Kubrick, Eyes Wide Shut, cronaca di una coppia di medici sull'orlo della disintegrazione; di nuovo la Kidman, di nuovo le composizioni dissonanti di Ligeti.

Citazioni, rivisitazioni, reminiscenze: ma la prospettiva sul mondo che Lanthimos ci offre è inimitabile. Tra dieci o vent'anni potremo aver scordato del tutto la trama de Il sacrificio del cervo sacro, e magari non ricorderemo neppure i rimandi ad altre cinematografie, né i virtuosismi di regia di cui è costellato. Difficilmente, però, dimenticheremo quel primissimo piano sul cuore pulsante di un uomo, tenuto aperto dai ferri chirurgici, pizzicato dai punti di sutura, innaturalmente esposto all'atmosfera e allo sguardo. Un'immagine devastante, che destabilizza e risveglia la coscienza da antico torpore, con il potere di unire decine di spettatori estranei l'uno all'altro in un unico palpito collettivo, e di mettere a nudo il banale, inesplicabile mistero della vita.

8 commenti:

  1. Risposte
    1. Grazie a te per aver dedicato del tempo ai miei sproloqui. Ciao!

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  2. Ottima analisi!
    Sì, forse il più accessibile di Lanhimos… e forse per questo quello che mi ha convinto meno. Ma avercene, di film così!

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    1. Grazie! Ero in dubbio se il più accessibile fosse questo o The lobster, e alla fine mi son deciso per questo, se non altro perché è venuto dopo e come spettatori abbiamo più strumenti e termini di paragone per capirlo.

      Concordo, ci fa storcere il naso perché sappiamo di cos'è capace Lanthimos, un po' come dire che Eyes Wide Shut è un Kubrick minore (che poi non è neanche vero, ma è così difficile staccarsi da certi mantra...).

      Sbaglio o tu sei quel Giacomo che rase al suolo il suo blog?! Che gesto, da brividi, chapeau. Poi passo a leggere la tua rece ;)

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    2. Ahahah, esatto XD e che ne viene tenuto lontano dagli impegni della "vita vera", ma sono soddisfattissimo della mia scelta :)

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    3. Eh capisco, il tempo per bloggare è come quello per amare, bisogna rubarlo

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