sabato 27 gennaio 2018

La ruota delle meraviglie (Woody Allen, 2017) - Recensione


Più che una tradizione, è un vizio. Diversamente non saprei spiegarmi perché, nonostante le aspettative prossime allo zero, ogni anno mi precipiti in sala a vedere l'ennesimo film di Woddy Allen. L'anno scorso sono certo di aver visto Café Society, eppure non riesco a ricordarne un solo fotogramma. Di Magic in the Moonlight, uscito nel 2014, conservo giusto qualche immagine di Emma Stone e Colin Firth che passeggiano al sole. Ricordo un po' più nitidamente Midnight in Paris, ma soltanto perché la stucchevole ricostruzione della Parigi anni Venti mi aveva irritato a dismisura. Ciononostante, è raro che mi perda l'appuntamento annuale con l'ormai piuccheottantenne regista newyorchese, e così anche quest'anno, per effetto dello stesso impulso pavloviano che attrae masse di spettatori verso l'immancabile cinepanettone, l'incantesimo si è ripetuto.

Quest'anno se non altro mi ha fatto piacere ritornare tra le ruote panoramiche e gli ottovolanti in cui trascorse l'infanzia Alvy Singer, il protagonista e alter ego di Allen nel memorabile Io & Annie, ad oggi il mio film preferito del regista. Siamo a Coney Island, quartiere residenziale a sud di Brooklyn famoso per i suoi parchi di divertimenti e i suoi stabilimenti balneari, dove Ginny (Kate Winslet), attrice teatrale fallita incline alle fantasticherie e ora cameriera in un chiassoso bar del luna park, convive con il suo secondo marito ex alcolista Humpty (Jim Belushi, fratello del più celebre John) e il figlio piccolo avuto dal primo matrimonio. I tre condividono un pittoresco appartamento un tempo adibito a saloon (o qualcosa del genere) reso pressoché inabitabile dall'onnipresente colonna sonora dei fucili ad aria compressa del vicino tiro a segno. Tra una sfuriata dell'iracondo marito e un attacco di piromania del figlioletto, la vita di Ginny è un perpetuo oscillare tra la delusione del presente e il ricordo mitizzato della sua fugace carriera nel mondo del teatro.

Scombussola il fragile equilibrio l'arrivo imprevisto di Carolina (Juno Temple), figlia ripudiata di Humpty in fuga dal marito, un pericoloso boss mafioso che ha giurato di ucciderla. Volano scintille, riaffiorano vecchi rancori, ma alla fine l'istinto paterno prevale e Humpty acconsente ad offrire protezione a Carolina, certo che a nessuno verrà in mente di cercarla dove non è la benvenuta. Un po' meno felice di questa sistemazione è Ginny, preoccupata per l'incolumità del figlio e sempre più incapace di contenere la frustrazione, finché l'incontro con Mickey (Justin Timberlake), un aitante bagnino aspirante drammaturgo, non riaccende in lei il fuoco del desiderio e insieme ad esso la speranza di dare una svolta alla sua vita castigata. Il destino però ha in serbo altri piani e non resiste alla tentazione di organizzare un incontro fra Mickey e Carolina, la quale ha dalla sua il fascino della donna giovane ma vissuta, una tentazione irresistibile per uno scrittore in erba inchiodato a un trespolo da bagnino. Nel frattempo, due scagnozzi si mettono in viaggio verso Coney Island...

Superficiale, esasperata nei toni, implausibile, verbosa ed eccessivamente melodrammatica: tutto si può dire della sceneggiatura de La ruota delle meraviglie ma certo non che sia noiosa o poco coinvolgente. Allen è sempre un maestro nello scrivere dialoghi brillanti che risucchiano in ogni istante l'attenzione dello spettatore, anche quando la conversazione verte su argomenti davvero poco interessanti, come il dilemma di stabilire se uno sguardo lanciato o un complimento proferito nell'intimità di un'automobile sferzata dalla pioggia costituisca corteggiamento o meno. Storditi dallo scilinguagnolo di Ginny e soci, non facciamo neanche caso alla lampante inverosimiglianza di certe situazioni: difficile, infatti, credere che un padre possa mettere a rischio la vita della figlia sulla base della tenue convinzione che "qui non verrebbero mai a cercarla", come se i clan mafiosi agissero sulla base di considerazioni eminentemente psicologiche. Altrettanto ardua da digerire è l'ingenuità con cui Carolina confida ogni dettaglio dei suoi convegni amorosi con Michey a una Ginny schiumante di gelosia, o la disinvoltura con cui l'affascinante bagnino porge a Carolina una copia del saggio psicoanalitico Amleto e Edipo con la promessa di un futuro scambio di idee sull'argomento. Ma soprattutto è impossibile non storcere il naso alla vista di adulti che si profondono nella descrizione dettagliata dei propri sentimenti come se non avessero ancora trovato una via di uscita dall'età ingrata.


D'altra parte non è la pretesa di realismo a guidare la penna di Woody Allen, ma piuttosto la ricerca di una giustizia poetica e di una drammaticità che hanno molto a che fare con le tragedie greche cui il film fa esplicito riferimento. A sancire definitivamente la libertà dell'autore da ogni vincolo di realismo è il personaggio del bagnino, narratore e protagonista della storia, che nel rivolgersi direttamente a noi spettatori, come già in molti altri film di Allen, infrange ripetutamente la cosiddetta quarta parete che separa il mondo reale da quello della rappresentazione. L'onere del realismo è ricaduto interamente sulle spalle del direttore della fotografia Vittorio Storaro e dello scenografo Santo Loquasto, che hanno fatto uno sforzo notevole per ricreare l'atmosfera della Coney Island degli anni Cinquanta, con le sue spiagge affollate di bagnanti, gli autoscontro, i ristoranti turistici dagli improbabili colori pastello. Un po' come la casa perennemente in subbuglio di Alvy in Io & Annie, incastrata proprio sotto le rotaie delle montagne russe, anche l'appartamento di Ginny è tutto fuorché un'oasi di pace, con le sue animate discussioni familiari, il brusio di fondo delle attrazioni turistiche e la luce artificiale che la ruota panoramica, come una sorta di gigantesco e variopinto lecca-lecca di zucchero, proietta su cose e persone a qualsiasi ora del giorno. Talvolta il viso di Kate Winslet cambia colore dall'arancione al blu oltremare nello spazio di una frase, in piena sintonia con i suoi frequenti sbalzi di umore.

La performance della Winslet, giustamente osannata, riesce a restituire tutto il malessere di una donna che, pur perfettamente cosciente di essersi messa in trappola da sola, non riesce, come lo scorpione della favola, a invertire la rotta delle proprie azioni scellerate. Non è da meno Juno Temple, cui è toccato il compito per nulla semplice di interpretare una ragazza piuttosto vacua e priva di slanci che pure deve poter accettare con una certa naturalezza la copia di Amleto e Edipo che Mickey le porge, un ruolo che per certi versi ricorda il personaggio di Mira Sorvino ne La dea dell'amore. Timberlake è deliziosamente insopportabile nei panni del bagnino acculturato e sciupafemmine, per lo meno fintanto che non vi scorgiamo una proiezione del debordante ego del suo creatore. Vista la sua funzione di narratore onnisciente mi sarei aspettato di rincontrare Mickey sul finale, ma Allen decide di farlo uscire prematuramente di scena per lasciare spazio, in modo abbastanza inaspettato, al personaggio più marginale.

Quanto all'insistenza di Allen nel sottolineare il ruolo preponderante del caso sulle nostre vite (vedi anche il meno recente Match Point) francamente non mi sembra di poter trarne chissà quale illuminante spunto di riflessione. D'accordo, se Mickey e Carolina non si fossero incontrati una seconda volta sulla riva del mare, non sarebbero sorte le complicazioni che sappiamo, e se quel telefono fosse stato riparato in tempo, allora forse gli eventi non sarebbero precipitati in quel modo. La ruota della fortuna gira in modo imprevedibile, e il lancio di una moneta può sancire il destino di un uomo... Bella forza, lo sapevamo già: etichettare tutto questo come "fato" potrà forse alzare il registro, ma non aggiunge nulla alla consapevolezza, condivisa più o meno da ciascun essere umano, delle infinite direzioni che la vita può prendere in qualsiasi istante.

Con tutti i suoi difetti, La ruota delle meraviglie rimane un esempio perfetto di puro intrattenimento: magnificamente interpretato, splendidamente girato, e privo di una qualsiasi attinenza con il mondo reale. Ci si emoziona facilmente, e altrettanto facilmente si ritorna alla realtà. Visto da fuori non ha il minimo senso, ma una volta che rimaniamo intrappolati dentro il suo magico ingranaggio, tutto comincia a funzionare alla perfezione. A volte un cinepanettone d'autore è tutto ciò di cui abbiamo bisogno.

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