sabato 26 maggio 2018

Dogman (Matteo Garrone, 2018) - Recensione


Dogman, che bel nome, si direbbe appartenere a un supereroe. E chissà, forse non siamo così distanti dalla realtà, dopotutto qualcosa di eroico effettivamente c'è nella vita di Marcello, titolare e unico gestore di uno scalcinato salone di bellezza per cani alla periferia di una città del litorale laziale. Mingherlino e curvo, gli occhi scavati e vagamente imploranti, non sembra tagliato per nessun lavoro, figuriamoci per quello di toelettatore di cani, in cui è necessario un certo nerbo se non si vuol essere ghermiti dai propri clienti. Eppure in qualche modo Marcello ce la fa, si arrabatta, si ingegna, compensa con la sensibilità e la pazienza dove non arriva con il talento, come il calabrone del proverbio, che pur inadatto al volo, vola tuttavia. E quando i miseri proventi della sua attività non bastano a sostentare se stesso e la figlia piccola avuta da una relazione che, si intuisce, deve aver conosciuto vita brevissima, allora si improvvisa spacciatore di piccolo taglio, oppure offre la propria stolida complicità ai microcriminali che popolano la malavita locale. Vaso di coccio tra tanti vasi ferro, in qualche modo riesce a tirare a campare e, nei momenti migliori, a portare sua figlia in vacanza in luoghi dove il mare non è soltanto un confine che annulla ogni speranza di fuga, una forza anonima che consuma la volontà e arrugginisce lo scheletro di ferro dei palazzi in rovina, ma un elemento vivo, in cui immergersi e trovare rifugio dalla miseria della Storia.

Come ogni supereroe che si rispetti anche Marcello ha un antagonista, anche se, altra convenzione del genere supereroistico, ha le sembianze del suo migliore amico, Simone, rissoso frequentatore di sale giochi e consumatore abituale di cocaina dedito a furtarelli ai danni dei suoi compaesani più prossimi. Le sue scorribande di giorno in giorno sempre più insensate, frutto di un cocktail micidiale di follia e violenza, mettono in serio allarme gli abitanti della zona, ma sarà proprio il debole Marcello a fare maggiormente le spese della ferocia incontrollabile di questo losco personaggio. Strappato alle retrovie della vita dove contava di trascorrere placidamente il resto dei suoi anni tra una striscia di coca, un'immersione subacquea e una manicure canina, Marcello dovrà decidere se tener fede nonostante tutto all'immagine mansueta e un po' babbea che si è portato appresso per anni, o se dare ascolto all'inedita sete di vendetta che sente crescergli dentro, e che lentamente lo trascina verso il suo punto di rottura.

Truce racconto di formazione, Dogman si svolge in un universo geograficamente individuabile, se non altro grazie alla parlata dei personaggi, ma allo stesso tempo profondamente estetizzante. Garrone si muove continuamente tra un raffinato realismo documentaristico, reso possibile da un accorto location scouting, e una ricerca ossessiva della bellezza triste che impregna i luoghi desolati di un'Italia abbandonata. Gli esercizi commerciali incastonati nei ruderi di vecchi palazzi come paguri nelle conchiglie, le rotaie delle giostre che si snodano inutilmente sulla terra riarsa, gli orrendi piloni di cemento che, in questo paradiso mancato, hanno preso il posto degli alberi – ogni elemento del paesaggio viene trasfigurato dalla macchina da presa e inserito all'interno di una composizione dall'impeccabile equilibrio formale. La stessa insegna del negozio di Marcello, con la sua alternanza di blu e di rosso e il suo slancio esterofilo, possiede qualcosa di epico che travalica i confini del mero realismo, e il continuo accostamento della figura esile di Marcello a quelle ben più imponenti dei suoi persecutori, oltre che dei molossi che si avvicendano nel suo negozio, sortisce un effetto grottesco, quasi fiabesco, come se anziché con uomini e cani Marcello avesse a che fare con giganti e leviatani. E da questo confronto esce ai nostri occhi nobilitato, ingigantito, in proporzione agli ostacoli che gli si parano davanti senza riuscire a piegarlo, alla dedizione con cui rivernicia la fiancata del suo furgoncino, alla determinazione con cui preserva la propria integrità di fronte alla barbarie, all'ostinazione, insomma, con cui rivendica il proprio posto nel mondo, non dovesse rimanergli nient'altro che un misero giaciglio nel bugigattolo del suo negozio.


Marcello è personaggio complesso arricchito da un'interpretazione unica e personalissima, fatta di balbettii, frasi lasciate a metà e altre biascicate fra i denti troppo sporgenti, sorrisi ebeti e sguardi dietro i quali potrebbe celarsi una disarmante semplicità, ma anche un latente, micidiale desiderio di rivalsa nei confronti di un mondo che non ha saputo comprenderlo, e alla fine ha smesso di volergli bene. Difficile immaginare l'attore Marcello Fonte in un ruolo diverso da quello confezionato per lui da Garrone, specialmente dopo che si è potuto constatare quanta poca distanza vi sia tra persona e personaggio in occasione della premiazione come miglior attore all'ultima edizione del Festival di Cannes, anche se, come è giusto precisare, gli oggetti nello specchio hanno spesso dimensioni diverse da quelle che ci si immagina. Come una formica è in grado di trasportare fino a svariate volte il suo peso, Marcello ha saputo reggere sulle sue gracili spalle la responsabilità di un ruolo difficile, perché difficile è suscitare compassione verso chi ha commesso il male, specialmente se vi si applica con spietata e loica efferatezza. Eppure è esattamente questa l'emozione che si prova a vederlo vagare per la spiaggia con il suo carico di dolore, alla ricerca di una platea che sia testimone della sua personale rivoluzione, e che lo accolga in trionfo per aver liberato il mondo da una terribile oppressione; salvo che l'unica platea che potrà forse tributargli un moto di compassione non si troverà, se non fuori dallo schermo. Da non sottovalutare anche l'interpretazione di Edoardo Pesce nei panni dell'incontrollabile Simone, personaggio tanto più spaventoso quanto più difficile è distinguere tra la sua innata aggressività e quello che appare come un inarrestabile degrado mentale innescato dalla cocaina.

Tra i tanti pregi di Dogman possiamo forse permetterci di rilevare anche un'imperfezione, e cioè un momento onirico-allucinatorio abbastanza superfluo e non del tutto in linea con un personaggio che fino a poco prima si era distinto per autocontrollo e lucidità di esecuzione, quasi che si volesse addolcire il giudizio sul suo eclatante gesto di vendetta. Non ce n'era bisogno: la bellezza della storia di Marcello risiede proprio nelle sue contraddizioni, nel suo essere insieme angelo e carnefice, e ogni attenuante è perfettamente fuori luogo.

4 commenti:

  1. splendida Ivan...

    io però ho amato da morire il finale allucinatorio, per due motivi

    uno perchè mi ha rimandato a un altro grandissimo finale di Garrone, quello di Reality (per me forse il suo capolavoro)

    due perchè solo in un'istantanea Garrone c'ha raccontato quello che forse è l'aspetto più importante del fatto reale, ovvero lo stato allucinatorio nel quale venne trovato il Canaro, pieno de cocaina

    e proprio per quello stadio lui fece quelle torture e ne raccontò poi di dieci volte peggiori

    era un fatto decisivo, non eliminabile per me, e Garrone l'ha messo dentro senza violenza, anzi, co na grazia infinita

    e poi rende ancora più forte questo suo cercar consensi, questo immaginasse osannato da tutti

    e poi, invece, restar solo

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    1. Quel poco che conosco della vicenda del canaro l'ho letto dopo il film, e anzi mi ha stupito apprendere che fosse fatto e strafatto, perché nel film, nonostante l'onnipresente cocaina, è sempre comunque molto lucido. Debole, ma padrone di sé. Quanto al suo cercar consensi, la scena finale sulla piazza per me era sufficiente, è quello il suo territorio, la patria in cui vorrebbe esser profeta.

      Vero che quell'allucinazione suggerisce un'immensa solitudine, ma per me era già chiara senza bisogno di spostarsi su un piano meno reale... poi per carità, Garrone ha deciso così è va benissimo così, io registro soltanto una mia impressione. E adesso voglio vedere questo Reality

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  2. Una recensione da pelle d'oca, mi sono ritrovata in tanti pensieri.
    Ho amato infinitamente Marcello, sia attore che personaggio. A un certo punto ho dimenticato i suoi denti troppo evidenti, i suoi modi goffi, le sue incapacità. Ho cominciato a vedere solo lui, in tutta la sua spontaneità, in tutta la sua umanità e il suo dolore immenso.
    Ho volutamente letto quasi nulla della vicenda reale, non volevo in nessun modo esserne condizionata.
    Spezzo anche io una lancia a favore della scena dell'allucinazione, l'aver reso quello che stava accadendo ancora più assurdo e surreale ha dato un tocco finale quasi magico.

    Alice

    P.S. Sono stata indirizzata a questo post dal tuo amico Giuseppe :) Ero già capitata sul tuo blog tempo fa, sarà bello approfondire.

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    1. Ciao Alice,
      capisco cosa dici, anch'io ho evitato di informarmi sulla vicenda del canaro, è uno di quei casi in cui la vita reale finisce per spoilerare la finzione.
      Il personaggio di Marcello resterà nel cuore di molti, e chissà, forse è più reale di quanto non immaginiamo.
      Giuseppe è sempre molto gentile! Anche lui ha un blog se non sbaglio, forse l'amico Caden qua sotto può aiutarmi
      A presto!

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