martedì 17 ottobre 2017

L'uomo di neve (Tomas Alfredson, 2017)


Aspettavo con ansia l'adattamento cinematografico de L'uomo di neve, non solo perché l'estate scorsa il romanzo di Jo Nesbø mi aveva risvegliato da un periodo di torpore narrativo che minacciava di far crollare sotto il suo stesso peso la pila di libri iniziati e subito abbandonati, ma soprattutto perché già dalle prime pagine mi ero reso conto del suo grande potenziale cinematografico. Con un eroe imperfetto come il poliziotto alcolizzato Harry Hole, una storia emotivamente ricca e stratificata su più livelli temporali, un serial killer ingegnoso e feroce, scene d'azione dalla dinamica chiara e riproducibile (bellissimo l'omicidio a bordo ruscello) e la cornice dei paesaggi innevati della Norvegia, il romanzo chiedeva a gran voce di essere trasposto sullo schermo, sua naturale destinazione. Ora che il film è arrivato in sala, possiamo solo sperare che Nesbø lo accetti con la stessa serenità di Stephen King, che a proposito del rischio di tramutare i suoi romanzi in film di serie Z dichiarò, "mal che vada sarò come quel passante innocente che assiste a un incidente stradale".

Qui più che di un incidente stradale si tratta di un'ecatombe, una strage di talenti che appare tanto più sconvolgente quanto più autorevoli sono le personalità coinvolte nel progetto: Martin Scorsese e lo stesso Nesbø nel ruolo di produttori esecutivi; Peter Straughan, già autore dell'ottimo La talpa, in qualità di co-sceneggiatore; Michael Fassbender nei panni dell'investigatore Harry Hole; J. K. Simmons, Charlotte Gainsbourg, Val Kilmer e Chloë Sevigny in vari ruoli secondari. Ma ancora più mortificante è la presenza di Tomas Alfredson alla regia, quello stesso Alfredson che nel 2008 ci regalò il superlativo Lasciami entrare, horror di rara intelligenza e sensibilità, e nel 2011 proseguì brillantemente con il già citato La talpa, una di quelle rare spy story che si prestano a multiple visioni perché il loro fascino non si esaurisce con la soluzione del mistero. Beh, che ci piaccia o no, d'ora in avanti dovremo ricordarlo anche come il regista de L'uomo di neve.

Prologo. In una casa isolata nel mezzo della campagna norvegese vive una donna sola con il figlio decenne; intorno è solo neve e silenzio. Un giorno il rombo di un'auto annuncia una visita inaspettata: un uomo che chiamano "zio" rimprovera aspramente la madre di non badare all'educazione del bambino, finché la discussione degenera e si arriva alle mani. La donna perde l'equilibrio, chicchi di caffè si spargono sul pavimento. Quando l'uomo riparte di gran carriera, madre e figlio disperati si mettono per strada al suo inseguimento, ma l'automobile sbanda e finisce sulla superficie di un lago ghiacciato. Salvo per miracolo, il bambino assiste impotente mentre la madre viene inghiottita dalle acque gelide.


Come sanno bene gli appassionati di romanzi thriller, il prologo, in genere situato nel passato remoto, costituisce sovente una chiave di lettura della storia, una spiegazione sotto mentite spoglie dei crimini che verranno, e L'uomo di neve non fa eccezione. Peccato che nell'adattamento si siano persi due dettagli fondamentali, uno di ordine morale e uno anatomico (evito spoiler per rispetto verso il libro) senza i quali l'episodio in questione non può in alcun modo contare come movente. Non c'è da meravigliarsi dunque se centoventi interminabili minuti più tardi, ripensando a questa introduzione, non potremo trarne alcun lume sulla condotta dell'assassino, che a quanto pare si è lasciato dietro un'interminabile scia di sangue a causa di un banale malinteso. Non abbiamo un movente, in compenso abbiamo il particolare dei chicchi di caffè: lascio decidere a voi se nel cambio ci abbiamo guadagnato.

Ciò che però colpisce maggiormente di questa scena iniziale non sono i chicchi di caffè, ma la dinamica dell'incidente, assolutamente imperscrutabile. Per quale motivo la madre perde il controllo del veicolo? Si tratta di un intempestivo blackout cerebrale, oppure ha deciso tutto ad un tratto (nel bel mezzo di un inseguimento, ricordiamo) di farla finita? In quest'ultimo caso, perché non tenta almeno di salvare la vita al bambino, o in alternativa di assicurarsi che anche lui perisca nell'incidente, insomma qualsiasi cosa che non sia inabissarsi tra i ghiacci con espressione ebete davanti agli occhi increduli del figlio? Trattasi di paresi? Non so dare una risposta.


Che la logica non sia il cavallo di battaglia di questo film, d'altra parte, emerge sempre più chiaramente man mano che ci addentriamo nel vivo della storia. Del protagonista, il detective Harry Hole cui Nesbø ha dedicato un'intera collana di romanzi, qui alle prese con un serial killer che decapita le sue vittime, non viene fatta una vera e propria presentazione. Certo, lo vediamo dormire sui marciapiedi, trascinarsi per le strade obnubilato dall'alcol, rispondere sgarbatamente al suo capo e (nei momenti in cui assomiglia di più a un essere umano) costernarsi per la propria inettitudine nel ruolo di padre, ma non è chiaro perché noi, spettatori paganti, dovremmo interessarci a tutto questo. Che cos'è che rende questo Harry Hole tanto speciale? Non certo le sue doti investigative, visto che (giusto per citarne una) non gli passa neanche per la testa di far analizzare i mozziconi di sigaretta spenti che trova in bella vista sulla scena del crimine. Né tantomeno il suo spirito di squadra, che si limita a uno scambio di frasi di circostanza con la neocollega Katrine Bratt mentre è intento a fare con i würstel quello che l'assassino fa con le sue vittime. Insomma, perché dovremmo affezionarci a un poliziotto che più che condurre un'indagine sembra aspettare che gli salti al naso il prossimo indizio, e la cui maggior risorsa consiste nell'esporsi inutilmente al pericolo confidando nella provvidenza?

Ma Harry Hole non è l'unico personaggio ad avere lo spessore della carta da cui proviene. Alla povera Chloë Sevigny tocca interpretare la coppia di gemelle meno credibile che si sia mai vista; J. K. Simmons, nei panni dell'editore Arve Støp, sembra abbastanza credibile, almeno finché non inizia a occhieggiare libidinosamente da dietro una credenza; e Charlotte Gainsbourg, nella parte dell'ex moglie di Harry, si cimenta nella scena di sesso meno sexy dai tempi di 50 sfumature di grigio. Ma a lasciare (letteralmente) di stucco, ahimè, è Val Kilmer nelle vesti dell'investigatore Gert Rafto, affetto da un incomprensibile gonfiore mandibolare che finisce per monopolizzare completamente la nostra già scarsa attenzione. Completano il quadro alcuni personaggi minori quali l'addetto alla disinfestazione e il sovrintendente Skarre, per lo più intenti a ballare forsennatamente durante l'esercizio del proprio lavoro. Immagino che tutto ciò sia difficile da visualizzare se non si è visto il film, ma è precisamente quello che vorrei evitarvi.


Il leitmotiv dell'uomo di neve, che sulla carta possedeva una genuina carica disturbante, al cinema diventa occasione di ilarità e sconcerto. Si può concedere che l'operazione di rendere spaventoso un pupazzo di neve non fosse impresa facile, ma sicuramente si poteva escogitare qualcosa di meglio di due ramoscelli rinsecchiti a mo' di braccia e un sorriso fatto di - eccoli che ritornano - chicchi di caffè (ringraziamo comunque l'autore per averci risparmiato la carota). Nulla però può eguagliare l'involontaria comicità degli omicidi: possiamo scegliere tra una scena del crimine infestata da frotte di galline ruspanti, crani esplosi che hanno tutta l'aria di essere stati realizzati con giornali vecchi e vinavil, la testa della Sevigny che plana inspiegabilmente su un cumulo di neve collocato sul fondo di un pozzo, stormi di gabbiani CGI che si addensano su cadaveri altrettanto CGI e, sospetto, molte altre scene che il mio inconscio si rifiuta di ricordare.

Se a ciò si aggiungono una colonna sonora sguaiata che alterna cellulari con suonerie improbabili a melodie elettroniche da infanzia della tecnologia, un montaggio caratterizzato da grossolane discontinuità, effetti speciali che farebbero arrossire i creatori di Howard il papero, una fotografia malaccorta che fa assomigliare gli splendidi panorami norvegesi a fondali ricreati in studio (cosa inaudita, se si pensa a quanto l'ambientazione abbia contribuito al successo del thriller scandinavo) e, infine, un utilizzo sconsiderato dello zoom che vanifica ogni possibilità di climax, si avrà un'idea abbastanza precisa dell'entità della catastrofe. L'ultima scena del film, che è anche la più sconcertante, rappresenta una chiosa perfetta per quella che con tutta facilità è la peggiore esperienza cinematografica non già degli ultimi, ma anche dei prossimi vent'anni.

Buona lettura.

4 commenti:

  1. Ciao Ivan.
    Tu lo aspettavi con ansia, io lo attendevo con terrore. Per questo motivo partivo prevenuta nei confronti del film. Vuoi perchè se ne parlava da anni, vuoi perchè si sono succeduti un tot di presunti registi e di sicuro la sceneggiatura è stata rimaneggiata più volte. E, tra un rimaneggiamento e l'altro devono averne perso dei pezzi per strada. La colonna sonora è agghiacciante, considerato che Nesbo si sofferma spesso sulla (buona) musica ascoltata da Hole. Che tristezza, che occasione sprecata.

    p.s. Rakel non è l'ex moglie di Hole. Si sposeranno poi.

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    1. Ciao Poison!
      Agghiacciante sì, tra l'altro a proposito della passione musicale di Hole mi hai fatto venire in mente che nel libro porta il figlio Oleg a un concerto degli Slipknot, che però nel film sono stati sostituiti da una specie di cantante yodel norvegese, assurdo... come molte altre cose del resto.

      Io ho scoperto Nesbo soltanto quest'estate, ma immagino che per chi lo segue da anni la mazzata sia stata tremenda...

      Grazie per la precisazione, ricordavo male

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  2. Ormai sei diventato il mio recensore preferito dietro Luigi Locatelli (e pari alla Poison che sta leggendo via).

    Sei stato troppo buono con la cosa della testa della Sevigny. E' pure peggio, lui ha fatto quel pupazzo de neve lì in fondo, hai messo anche la foto dai. Quindi o ha costruito tutto in cima e ha buttato giù senza che si rompesse nulla (è neve...) e mantenendo un''improbabile assenza di rotazione della scultura, oppure ha fatto tutto laggiù in fondo. E come ha fatto non se sa visto che pe recuperalla la polizia ce manda della specie de speleologi (cit per te)

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    1. Troppo onore...
      Guarda, se riesce a incassare una testa di gufo ghiacciata (perché quella è) su un cadavere decapitato senza che coli neanche una goccia d'acqua, secondo me riesce anche a fare pupazzi a distanza, un po' come fanno i modellisti con le navi in bottiglia... con le braccine però dev'esse stata dura
      Sta cosa degli speleologi mi ha steso, davvero

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