sabato 6 maggio 2017

Kynodontas (Yorgos Lanthimos 2009)


Se Alps e The lobster mi avevano affascinato senza conquistarmi, non ho saputo trovare nessun difetto in Kynodontas, secondo lungometraggio del regista greco Yorgos Lanthimos mai distribuito nelle sale italiane, che ho avuto la fortuna di vedere sul grande schermo grazie ai ragazzi del MYLF, un festival permanente ospitato nella sala 3 del cinema Massimo torinese. Lanthimos racconta una storia di alienazione e isolamento in forma di gigantesca metafora, sguazzando nel grottesco con la stessa disinvoltura con cui altri registi si muovono nel territorio del dramma o della commedia, trovando la giusta formula per guadagnarsi fin da subito la fiducia dello spettatore e condurlo per mano nel regno della follia.

L'insieme delle norme sociali con cui gli esseri umani si sforzano di affrancarsi dallo stato di natura deve apparire a Lanthimos come del tutto arbitrario e insensato, un tentativo patetico di arginare l'avanzata del caos. In effetti tutti e tre i film citati indagano in modi diversi il rapporto tra una società opprimente e quasi orwelliana nel suo essere rigidamente strutturata, e un individuo che più o meno consapevolmente ricerca la libertà all'interno di essa, non tanto per hollywoodiano eroismo quanto per effetto della congenita tendenza all'entropia che è propria di ogni sistema ordinato. Percorrendo la filmografia del regista a ritroso, troviamo lo stesso tema di fondo esplorato su scala diversa: una società che punisce severamente la monogamia (The lobster), una associazione segreta che impone ai suoi membri l'interpretazione di ruoli differenti con la clausola della non-intersezione (Alps) e infine una famiglia che vieta ai figli di esplorare il mondo che si estende al di fuori del recinto di casa (Kynodontas). Coerentemente con questa visione, la strategia con cui scrive i suoi film a quattro mani con lo sceneggiatore Efthimis Filippou sembra essere quella di un bambino che con geometrico rigore e infinita pazienza edifica un grandioso castello di carte, per poi sfilarne qualcuna alla base e godersi lo spettacolo della distruzione.

L'incipit di Kynodontas mi ha ricordato Alps nel modo in cui ci introduce senza preamboli all'universo distorto dei suoi personaggi. Un nastro registrato spiega che "un'autostrada è un vento molto forte" mentre "un'escursione è un materiale molto resistente". Una ragazza bendata viene condotta in una casa in mezzo al nulla e si intrattiene in rapporti sessuali con un giovane ragazzo. Una donna ultratrentenne esulta in modo puerile quando le regalano un cerchietto per capelli fosforescente. Un uomo strappa l'etichetta dalle bottiglie d'acqua che ha appena acquistato al supermercato. Come in Alps, l'accumularsi di situazioni bizzarre e apparentemente slegate fra di loro non fa che aumentare la nostra curiosità - o la nostra irritazione, nel caso non fossimo disposti a stare al gioco del regista: ma è molto meglio restare seduti in poltrona, perché si tratta di un gioco "non a somma zero".


Lentamente cominciamo a intravvedere una chiave di decifrazione (consiglio agli spoilerfobici di abbandonare la lettura): c'è questa villa immersa nella campagna greca dove vive una famiglia composta da padre, madre e tre figli (un maschio e due femmine) di età compresa tra i venti e i quarant'anni. Soltanto il padre ha la facoltà di valicare l'alto muro di cinta che impedisce la vista oltre il giardino, e che i figli non solo non hanno mai oltrepassato, ma neppure hanno mai immaginato di poter oltrepassare, perché i genitori li hanno cresciuti nella totale ignoranza del mondo esterno, come una di quelle quelle tribù "incontattate" di cui vanno ghiotti gli studiosi di etnologia. Obbedendo forse a un malsano impulso di controllo, hanno manipolato l'imprinting della propria prole inculcando loro l'idea di un mondo fatto di riflessi e ombre del mondo reale, una caverna platonica dove le parole hanno perso la loro forza centrifuga, dove una fica è una lampada di grandi dimensioni, uno zombie è un grazioso fiorellino giallo, e gli aerei che solcano il cielo non evocano distanze più lunghe di una spanna perché è la dimensione apparente delle cose quella che conta. La famiglia è il luogo dove si acquisiscono gli strumenti cognitivi ed emotivi per comprendere e interagire con il mondo esterno, ma che cosa succede se il mondo coincide con il nucleo familiare stesso? - sembra chiedersi Lanthimos.

Se è vero che ogni storia d'amore è una storia di fantasmi, è altrettanto vero che ogni film è in qualche misura la storia di una mutazione radicale e irreversibile, una rivoluzione personale, un'uscita dal guscio. Non fa eccezione Kynodontas, che nasconde nel titolo il passaggio segreto verso la libertà. Ma prima di allora, avremo tutto il tempo di entrare in confidenza con il lessico famigliare di questa strana famiglia, fatto di riti disumani, paure ancestrali, regole assurde quanto inattaccabili dall'interno, e una sessualità che esclude a un tempo il tabù dell'incesto e il piacere della disinibizione, dove le pratiche sessuali si riducono a epidermiche suzioni e gelide penetrazioni. Difficile dimenticare la scena del ballo di famiglia, con la figlia maggiore che imita i passi di Flashdance con la grazia di un automa indemoniato davanti ai genitori allibiti (Angeliki Papoulia, già vista in The lobster e Alps, ha tutte le carte in regola per diventare una delle mie attrici preferite) o il momento in cui il figlio balza con un paio di cesoie su un innocuo gattino, lasciandoci nel dubbio se indignarci o sghignazzare - un dubbio che sorge spesso con Lanthimos, sempre molto abile a camminare in equilibrio tra commedia e tragedia, normalità e perversione.


La forza del grottesco consiste proprio in questo, nel saper parlare di cose apparentemente lontanissime da noi eppure tremendamente vicine. Mentre ci culliamo nell'illusione di essere al sicuro, di non aver niente a che fare con una storia di cerchietti fosforescenti e gattini squartati, di buñueliane barriere invisibili e narcosi autoindotte, dentro di noi si insinua il sospetto orribile che tutto questo non sia altro che la nostra storia mascherata da fiaba truculenta. Vorremmo con tutte le nostre forze che quello scrigno finale si aprisse, liberando una volta per tutte l'essere infelice che è racchiuso al suo interno, ma Lanthimos non può e non vuole darci questa soddisfazione. Spetta a noi e a noi soltanto riempire il vuoto immenso che occupa l'ultima inquadratura del film, e proiettare nello spazio vacante quella parte di noi che da sempre custodiamo sotto chiave e che, se solo ne avessimo il coraggio, lasceremmo correre libera per il mondo.



Non è successo niente. Poco fa si diceva che ogni film è in qualche modo la storia di un cambiamento. In effetti, nonostante il ritmo estremamente lento di certi film lasci credere il contrario, mi sembra di poter dire che la trama in cui "non succede niente" è pressoché introvabile nel cinema - forse perché la stessa assenza di Eventi è, di per sé, un Evento, specialmente se qualcuno decide di dedicarvi un intero film. Con Paterson Jarmush si è cimentato, mi sembra, nell'impresa di ridurre al minimo l'evoluzione di un personaggio, costruendo una storia che parla di giornate indistinguibili e gesti sempre uguali ripetuti all'infinito, ma a ben guardare anche lì si producevano dei cambiamenti, seppur in scala ridotta. Voi cosa ne pensate, si può fare un film dove non succede niente?

La parola negata. A proposito di parole proibite, mi viene in mente quel racconto di Buzzati, anch'esso costruito come una specie di gioco con il lettore, in cui una certa parola veniva omessa in vari punti del testo perché censurata da un immaginario regime totalitario. Vi ricordate il racconto e qual era la parola proibita?

Camera fissa, camera mobile. In Kynodontas le inquadrature fisse, intercalate da sporadiche carrellate laterali, accentuano il senso di orrore e di prigionia, mentre nell'epilogo troviamo uno dei pochi esempi di ripresa con camera a mano. È un'ottima occasione per riscoprire il valore autenticamente destabilizzante di questa tecnica, di cui troppo spesso abusa, secondo me, il cinema contemporaneo. Nel realizzare lo splendido Ida il regista polacco Pawlikowski avrà la stessa intuizione.

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