sabato 12 novembre 2016

Io, Daniel Blake (Ken Loach 2016)


"Altro che film, questa è la vita vera..." è il commento di un signore seduto dietro di me. Forse nessun regista come Ken Loach è capace di suscitare una reazione emotiva così prepotentemente irrazionale nello spettatore. Ciò che vediamo sullo schermo non è semplicemente un film, ma un pezzetto di vita rubato ai suburbi anneriti delle città inglesi - o almeno questa è l'impressione. Certo, siamo consapevoli che protagonisti e storia possono essere frutto di invenzione, ma le dinamiche appaiono sempre molto ben radicate nel contesto sociale ed economico in cui i personaggi si muovono, contesto in cui natura e necessità solitamente sembrano avere la meglio sui disegni capricciosi del caso. Dei personaggi di Loach non avremo mai occasione di chiederci, come Nanni Moretti, "ma queste sigarette, questi vestiti, come se li sono procurati?" perché fin dal principio risulta molto chiaro di che cosa campano, che cosa mangiano, che tipo di contratto di locazione hanno stipulato, e anzi tutti questi elementi costituiscono il centro stesso della storia.

Questa storia parla di Daniel, carpentiere vedovo alle soglie della terza età costretto ad un periodo di riposo forzato dai cantieri a causa di un infarto. Ma è solo l'inizio dei suoi problemi: la richiesta del sussidio di invalidità approvata dal medico curante viene respinta dall'assicurazione sanitaria, che invece ritiene Daniel abile al lavoro (una situazione per certi versi simile a quella di Sonia Bonet ne Il mostro dalle mille teste). Gli si aprono due possibilità ugualmente indesiderabili: fare ricorso contro l'assicurazione, con tempi lunghissimi ed esito incerto, oppure richiedere allo Stato il sussidio di disoccupazione, con l'implicita ammissione di idoneità al lavoro e il conseguente obbligo di ricerca attiva e verificabile di un impiego che non è in condizioni di svolgere.

Per Daniel inizia così un percorso tortuoso nella giungla burocratica inglese, fatta di leggi vessatorie (è vittima tra le altre cose della tristemente famosa bedroom tax, una tassa sulle case popolari con stanze inoccupate, tuttora in vigore in Gran Bretagna) e assurde sanzioni pecuniarie per il mancato rispetto dei termini prescritti. Rischiarerà le sue giornate l'incontro con Katie, ragazza madre disoccupata che sogna di riprendere gli studi universitari interrotti e dare un futuro migliore ai suoi due figli.

A tratti arrogante e inospitale ma in fondo tenero e altruista, orgoglioso e sardonico, nemico delle ingiustizie e dei dispositivi elettronici, abile intagliatore di oggetti di legno che donano calore a chi li riceve, Daniel è un personaggio che si imprime facilmente nella memoria. Non è l'unico personaggio a guadagnarsi il nostro affetto: gran parte della bellezza di questo film sta nella varietà di facce che lo popolano, facce di donne e uomini in coda al freddo per le razioni alimentari, facce di impiegati arcigni e altri più umani, facce di bambini che si appassionano e sperimentano, facce di passanti che solidarizzano con le vittime dell'ingiustizia.

C'è qualcosa di poetico nell'atto di scomodare la gigantesca macchina del cinema, con i suoi meccanismi narrativi ben oliati, le sofisticazioni tecniche, gli effetti speciali e gli espedienti drammatici, per raccontare in fin dei conti una storia di quotidiana sopravvivenza che assomiglia in modo inquietante a ciò che ci aspetta fuori dal cinema (un'operazione che ricorda il cervellotico marchingegno concepito da "doc" Brown per dare da mangiare al cane). Perché anche se abilmente nascosto tra le pieghe della Realtà, l'artificio c'è ed è costantemente all'opera, segno che la vocazione "proletaria" di certo cinema europeo non è in contrapposizione, e non c'è nulla di male in questo, con i dettami classici di quel cinema che per comodità chiamiamo hollywoodiano.


[lievi spoiler nei paragrafi in viola]


Ad esempio, Loach non contravviene mai al principio della pistola di Cechov, secondo il quale se nel primo atto di un'opera drammatica viene mostrata un'arma, allora nel secondo o terzo atto dovrà necessariamente sparare. Nel nostro caso la pistola può essere una domanda che non ha avuto risposta, oppure una libreria di cui non si indovina la funzione, o perfino un rituale banale (i battibecchi per la spazzatura non smaltita) che acquisterà un significato speciale nel momento in cui si interromperà. Classico è anche il procedere dei personaggi per obiettivi che vengono via via frustrati o aggiornati, creando le tensioni propulsive necessarie allo sviluppo della storia, così come tradizionale è il meet-cute (primo tenero incontro? qui la traduzione è davvero ardua) dei protagonisti, anche se avviene nel luogo più inospitale che si possa immaginare e non ha necessariamente implicazioni romantiche. Più che mai classici anche i movimenti della macchina da presa, che segue i personaggi in modo discreto, senza virtuosismi e sempre nel modo più funzionale alla comprensione della scena.

Il pelo nell'uovoCom'è difficile conservare la gentilezza quando tutto intorno a noi crolla, direbbe Battiato. 
Nella scena che dà il titolo al film Daniel si lascia andare ad un eclatante gesto di protesta contro l'assicurazione che gli ha rifiutato il sussidio di invalidità, quando un passante, commosso, gli cede il cappotto perché si protegga dal freddo. Intervengono le autorità, Daniel viene arrestato e condotto verso un'auto della polizia. L'auto parte. In terra, il cappotto.

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