sabato 8 aprile 2017

Victoria (Sebastian Schipper 2015)


Di solito cerco di arrivare al cinema ignaro di quello che mi aspetta. Trailer non ne guardo da anni, non soltanto perché generalmente contengono vistose anticipazioni, ma anche perché tendono a dare un'idea abbastanza precisa dell'atmosfera, dei colori, del genere e del tono del film, creando un pregiudizio che inevitabilmente va ad alterare l'esperienza della visione. Purtroppo è diventato sempre più difficile tenersene alla larga, visto il bombardamento pubblicitario cui si è sottoposti prima di ogni spettacolo, specialmente nelle multisale, dove ormai bisogna mettere in conto uno slittamento di tre quarti d'ora rispetto all'orario di inizio. Di recente mi è capitato addirittura di imbattermi nel trailer del film che mi accingevo a vedere, caso eclatante di overselling di un prodotto (anche se c'era poco da spoilerare: il film in questione era il deplorevole John Wick 2). A costo di sembrare lo squinternato della poltrona accanto, ciò che faccio "normalmente" in questi casi è adottare la posizione fetale, detta anche atterraggio di emergenza o porcellino di terra, sforzandomi di pensare ai pappagalli verdi della Papuasia, o in alternativa cerco di sviare l'attenzione dei miei corruttibilissimi neuroni subissando i miei compagni di visione con un flusso ininterrotto di informazioni su un argomento qualsiasi.

In condizioni ideali, bisognerebbe avvicinarsi a un film senza sapere se sia in bianco o nero o a colori, chi sia il regista e che esperienza abbia alle spalle, e possibilmente ignorando il titolo. Follia? In qualche rara occasione il cinema Classico torinese (già Empire, per chi se lo ricorda) ha avuto il coraggio di proporre film "al buio", ma di certo non è una strategia applicabile su larga scala. Come orientarsi allora nella scelta dei film da vedere? L'unico modo, secondo me, è andare a sensazione o a simpatia, allo stesso modo in cui si approccia una persona sconosciuta in metropolitana. Il rischio è quello di non restare al passo con le uscite imprescindibili della stagione, ma la contropartita è vivere il cinema non alla stregua di un evento culturale o di una distrazione, ma come una specie di avventura.

Victoria ha però (provvidenzialmente) mandato a monte i miei piani di arrivare impreparato, perché ogni recensione o sinossi, per quanto concisa e spoiler-free, immancabilmente menzionava la tecnica con cui il film è stato realizzato - un unico piano sequenza di due ore e un quarto per le strade di Berlino. Questa consapevolezza altera drasticamente l'esperienza del film, perché parte della nostra attenzione è inevitabilmente concentrata a monitorare l'assenza di tagli e le difficoltà tecniche che ne conseguono, creando un effetto di suspense che potremmo chiamare extra-diegetica perché non ha a che fare con la trama del film ma con la sua realizzazione. Il timore che qualcosa vada storto, che le riprese così meticolosamente pianificate vengano mandate all'aria da un inciampo del cameraman (i cui meriti vengono riconosciuti anche nei titoli di coda: il suo nome in via eccezionale compare prima di quello del regista), un rovescio di piogge torrenziali, una disattenzione di uno qualsiasi dei numerosi interpreti, uno stormo di piccioni famelici, non è attenuato in alcun modo dal pensiero razionale che in fondo, se Victoria si è meritato la distribuzione in sala e il plauso della critica, qualcosa di decente dev'essere pur venuto fuori.

La cosa sorprendente è che il film stesso, nel corso di centotrentacinque intensissimi minuti, ci invita ad abbandonare ogni mania di controllo, a rinunciare all'idea che il cinema debba per forza essere scandito da un insieme discreto di scene rigidamente pianificate in ogni minimo dettaglio che vengono poi accuratamente giustapposte in una sala di montaggio. Intendiamoci, Victoria non avrebbe visto la luce senza una meticolosa predisposizione delle location, i percorsi degli attori all'interno delle scene, gli effetti speciali, eccetera, ma il suo cuore pulsante non è tanto la tabella di marcia che l'ha reso possibile, quanto l'imprevisto che attende attori e troupe a ogni angolo di strada, e che li costringe a reagire in modi che nessuna sceneggiatura avrebbe potuto prevedere, infondendo linfa vitale a una storia che assomiglia sempre di più alla vita reale man mano che il fattore umano prende il sopravvento.


Se all'inizio delle riprese gli attori sono freschi e ben acconciati, dopo un'ora ininterrotta di recitazione cominciano a essere sudati e malconci, anche perché si trovano ad affrontare scenari fisicamente e psicologicamente impegnativi. Sonne, il ragazzo di cui la protagonista si innamora e che finisce per trascinarla in una pericolosa avventura nei sotterranei della malavita berlinese, è talmente esausto che la sigaretta accesa gli sfugge di tra le dita, e a forza di urlare non ha più voce per pronunciare le battute. Ma è su Victoria (interpretata da una björkesca Laia Costa), continuamente assediata dalla macchina da presa, che più si vedono i segni dello sfinimento e della tensione: i capelli sono sempre più unti e arruffati, la pelle del viso via via più scivolosa e lucida, tanto che poco prima della scena finale, densa di primissimi piani, si ritaglia un minuto per andare in bagno a rinfrescarsi. A vederla prorompere in un pianto disperato e isterico, con lunghe strisce di bava che le colano sul mento insieme alle lacrime, si ha l'impressione che non sappia più distinguere realtà e simulazione, come se dopo due ore di recitazione intensiva fosse entrata in una specie di trance ipnotica. Se è vero, come diceva Godard, che ogni film è in ultima analisi un documentario sugli attori che lo interpretano, allora nessun film come Victoria è capace di documentare lo straordinario investimento emotivo che questo mestiere comporta.

In questo senso non c'era tecnica migliore di un lungo piano sequenza per raccontare la storia di una ragazza incosciente, permeabile all'avventura, e con un'illimitata, istintiva fiducia nel futuro. Victoria è un'ode all'imperfezione e all'imprevisto perché introduce fin da subito la possibilità di un errore, ed è solo accettando a nostra volta le deviazioni dal percorso prestabilito e le implausibilità di cui è costellato che possiamo apprezzarlo e viverlo come un'autentica, trascinante avventura. E forse questo significa accettare anche che, a volte, uno spoiler può svolgere la stessa funzione della famosa bomba sotto il tavolo di cui parlava Hitchcock, che non soltanto non rovina la visione, ma la arricchisce e la amplifica all'ennesima potenza.



La sérénade interrompue
. L'utilizzo del piano sequenza non esclude la presenza di discontinuità nella traccia audio: in un momento particolarmente intimo della nottata, Victoria suona al pianoforte un estratto dal primo Mefisto Valzer di Franz Liszt, ma si tratta con ogni probabilità di una melodia aggiunta in post-produzione, anche se l'attrice Laia Costa fa del suo meglio per fingere dimestichezza con la tastiera nei rari momenti in cui la telecamera inquadra le sue mani.

Il cielo su Berlino. Per rendere ancora più palpabile la coincidenza di tempo della storia e tempo del racconto, oltre che (immagino) per limitare il numero di blocchi stradali necessari alle riprese, Schipper sceglie di ambientare il film a cavallo del sorgere del sole. Prima di lui, altri registi che si cimentarono con il long take sfruttarono lo stesso principio: ad esempio, Hitchcock ambientò Nodo alla gola (1948) al tramonto (anche se si trattava di un tramonto artificiale) e Richard Linklater girò la sua "Before Trilogy" in tre momenti di transizione della giornata: Prima dell'alba (1995), Prima del tramonto (2004) e Prima di mezzanotte (2013).

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