sabato 14 ottobre 2017

Madre! (Darren Aronofsky, 2017)


Fatico a capire perché alcuni film vengano odiati con tanta veemenza e in modo così unanime. Invece di riflettere su quello che abbiamo visto, ci abbandoniamo alla stigmatizzazione, alla derisione, all'insulto. Invece di cercare di capire quali tasti va a toccare Aronofsky per suscitare una reazione così viscerale, preferiamo bollare l'intero progetto come una solenne porcheria o il delirio di onnipotenza di un regista che ha miseramente fallito per voler pisciare troppo lungo. Oppure, reazione altrettanto stupida, cogliamo al balzo l'occasione per andare contro corrente, dimostrando al "pubblico generalista" quanto siano squisiti i nostri gusti cinematografici: è l'opera di un puro genio, troverà un posto negli annali del cinema, ma è inutile che vi spieghi in che cosa consiste questa genialità perché tanto non capireste.

Diventa difficile, in un clima del genere, formarsi serenamente un'opinione senza farsi influenzare dal brusio di sottofondo. Probabilmente l'epicentro dell'odio che ha travolto Madre! si trova proprio nel luogo in cui è stato presentato al mondo per la prima volta, cioè in quel festival di Venezia dove ogni anno, come da tradizione consolidata, almeno un film viene accolto con fischi e sberleffi. A quel punto, mi sembra, il naufragio era già stato decretato. "O lo ami o lo odi" è il mantra che si ripete quando si ha a che fare con un film minimamente controverso. Ma davvero bisogna per forza gettarsi a capofitto nell'arena del giudizio facile, dove la censura tranchante e la lode sperticata poco hanno a che fare con l'opera, e molto con l'immagine che vogliamo dare al mondo di noi stessi?

Oltre a mettere a tacere il chiacchiericcio sensazionalistico conviene ignorare anche le interpretazioni fornite dallo stesso regista, di cui - mi dicono - a questa tornata è stato particolarmente prodigo. Quando un film possiede un'anima, i significati che rimanda trascendono le intenzioni del regista, e quando l'anima non c'è, beh, non è certo sezionandolo che potremo infondergli la vita. Definizioni come "allegoria biblica" o "viaggio nella psicologia di una mente paranoica" potranno forse rassicurarci nella nostra ansia di definizione, ma di certo conservano ben poco dell'oggetto che pretendono di descrivere. Di una cosa, però, possiamo stare sicuri, e cioè che quello di Aronofsky è un film indisciplinato, incontenibile, esagerato: il punto esclamativo è un chiaro avvertimento.

Non ci sono indicazioni precise di tempo o di luogo, né è dato conoscere i nomi dei due protagonisti, una donna sotto i trent'anni appassionata di restauro (Jennifer Lawrence) e suo marito, uno scrittore di mezza età in crisi creativa (Javier Bardem). La radura in mezzo al bosco in cui si trova la loro abitazione, una villa a pianta ottagonale decorata da una bizzarra fantasia di oblò, colonne e vetrate, potrebbe trovarsi in una qualsiasi parte del mondo, e anche l'arredamento dice abbastanza poco dell'epoca in cui si colloca la storia. Non ricordo di aver visto televisori o cellulari nell'appartamento (inutilizzabili visto che non c'è copertura di rete) in compenso troviamo alcuni elettrodomestici e dispositivi di vecchia generazione come forno, lavatrice e telefono a muro. Nei momenti di ispirazione, il marito per scrivere non usa né portatile né macchina da scrivere, ma un banale foglio di carta e una penna. La civiltà rimane fuori campo, come qualcosa di mitico al di là dell'orizzonte.

Lei è felice nello splendido eremo che si è costruita, lui al contrario sembra insoddisfatto e irrequieto. Tormentato dal foglio bianco, vorrebbe uscire all'aria aperta, aprire la casa agli sconosciuti, trovare nuovi stimoli per superare il blocco creativo che lo attanaglia da settimane. Così, quando una sera un anziano chirurgo dalla salute precaria (Ed Harris) suona alla porta chiedendo alloggio, lo scrittore acconsente con entusiasmo ad ospitarlo a tempo indefinito, noncurante delle proteste della moglie. La profonda intesa che si sviluppa tra i due uomini aiuta lo scrittore a ritrovare la vena di un tempo, mentre lei, diffidente nei confronti dello strano ospite, viene ripetutamente assalita da attacchi di panico e presagi di una catastrofe imminente.

Quando anche l'invadente moglie del chirurgo (una sulfurea Michelle Pfeiffer) elegge a suo domicilio la casa ottagonale in mezzo al bosco, le incomprensioni tra ospiti e padroni di casa si acuiscono, e quella che era un'idilliaca residenza di campagna si trasforma nel teatro di una faida familiare insensata e sanguinosa. Consumata la tragedia e partiti finalmente gli ingombranti ospiti, segue un periodo di quiete e grandi progetti. Un bimbo è in arrivo, una raccolta di poesie è alle stampe: la felicità familiare sembra ripristinata. Ma è una calma apparente: il successo del nuovo libro attira torme di lettori, o per meglio dire di fedeli, che vedono nello scrittore una specie di messia, e nel libro il testo sacro di una nuova religione. L'invasione ricomincia e il sangue torna a scorrere...


Forse il modo migliore per apprezzare il film è rinunciare a decifrare simboli, rimandi biblici, allegorie nascoste, per godersi invece la discesa nel caos che Aronofsky ha preparato per noi, un caos fatto di urla, sangue, colpi di pistola, vetri che si infrangono, ossa che scrocchiano, dove in pochi secondi una stanza da letto può trasformarsi in un campo di battaglia e il più perfido degli aguzzini può avere la faccia di un nostro conoscente, in un crescendo di follia che è allo stesso tempo imprevedibile e stranamente familiare, proprio come avviene nei sogni, in cui ogni dettaglio per quanto assurdo e illogico conserva sempre qualche traccia di ciò che l'ha evocato. Come esperienza si può paragonare ad Antichrist di Lars von Trier, sia per gli eccessi di cui è costellato, sia per il rigore quasi matematico con cui capovolge le norme del vivere civile, prime fra tutte quelle del buon gusto.

Proprio come la protagonista del film, anche la sensibilità di noi spettatori viene fatta oggetto di un crescendo di aggressioni che richiedono uno sforzo sempre maggiore per essere processate e "perdonate". Mi sembra infatti che l'operazione di Aronofsky consista proprio in questo, nel delimitare un'apparente zona di comfort (la casa, il corpo femminile, la solitudine coniugale) che viene poi sistematicamente violata e ridefinita nel corso del film mano a mano che le aggressioni si moltiplicano. Anche quando pensiamo che peggio di così non possa andare, che il culmine della violenza sia stato ormai raggiunto, Madre! ci costringe a mettere in discussione ancora una volta il perimetro di sicurezza dentro cui ci siamo trincerati, finché questo non è più grande del minuscolo corpo di un neonato. È qui, penso, che si situa il confine tra semplice disagio e vera e propria indignazione: se Aronofsky si fosse fermato un attimo prima, se avesse rinunciato a violare quest'ultimo tabù, probabilmente non si sarebbe sollevata una tale onda di scherno nei suoi confronti. D'altra parte sono contento che abbia deciso di non fare prigionieri, perché inseguendo l'ispirazione allo stato puro così come dev'essersi presentata alla sua immaginazione ha dato vita ad una delle esperienze più esilaranti di quest'annata cinematografica, anche se molti a questa definizione preferiranno quella di "risibile" o, peggio, "offensiva".

Per il modo in cui mette in scena la disintegrazione (in senso letterale) dei muri che edifichiamo per difenderci dalla barbarie, Madre! si presenta come una riflessione (piuttosto movimentata) sulla paura irrazionale di essere invasi, di perdere i propri inalienabili diritti, di vedere la propria verghiana roba espropriata da orde di predatori mentre chi dovrebbe proteggerci non fa che spalancare loro la porta. La dimora dei due protagonisti viene invasa più volte da perfetti sconosciuti, con i pretesti più assurdi e nei momenti più inopportuni, come se i concetti di proprietà privata e territorio non avessero più alcun valore: non c'è bene che non sia alienabile, confine che non sia valicabile, corpo che non sia profanabile. Perfino la sala cinematografica, che con la sua oscurità ovattata ci permette di guardare senza essere guardati, non è più quel luogo protetto che conoscevamo, dove non può accaderci nulla di male, anzi, è certo che molti avvertiranno il bisogno di sottrarsi allo spettacolo, stanati dal fumo del disgusto e della provocazione. Nella mia esperienza, soltanto un altro film ha provocato così tanti walk-out dalla sala, Under the skin di Jonathan Glazer, dove guarda caso veniva infranto lo stesso tabù.

Coerentemente con questo approccio immersivo e poco incline al compromesso, l'occhio della telecamera segue da molto vicino ogni movimento della Lawrence nascondendo spesso l'ambiente circostante con la sua figura, soprattutto (cosa degna di nota) quando il ritmo si fa più frenetico. Il connubio primo piano/camera a mano, piuttosto raro nel cinema, si rivela in questo caso la tecnica più efficace per trasmettere allo spettatore l'ansia crescente della protagonista mentre si sforza disperatamente di impedire la distruzione di tutto ciò che ha costruito. Si esce dal cinema come da una lunga apnea, con addosso la sensazione di essere stati testimoni di una sorta di perverso miracolo.

5 commenti:

  1. Non ho visto il film, quindi non posso dare un parere a riguardo, ma la tua introduzione non può che trovarmi d'accordo: troppe volte, su troppi film sento/leggo pareri opposti (merda o capolavoro), senza che venga spiegato il motivo (anche se io credo che i social, Wikipedia e gli archivi di "roba cinefila" in giro rendano tutti dei gran recensori/critici). Troppe volte sento commenti che nulla hanno a che vedere col film ma più col regista, la sua poetica, gli attori e la loro scelta di fare questa o quella pellicola. Con tutte le interviste, dichiarazioni e quant'altro di attori e registi tutti a fare l'analisi freudiana del film o dell'interpretazione.

    Ti metto qui il link di un post di Peppe che sintetizza e spiega con parole migliori delle mie quel che penso, anche se forse l'avrai già letto. http://ilbuioinsala.blogspot.it/2017/10/mi-sono-rotto-il-cazzo.html

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    1. Ciao Pietro, weekend di invettive, a quanto pare :)

      L'ho letto e sono perfettamente d'accordo, Peppe ha illustrato molto bene un tipo di discussione sedicente cinefila che va molto di moda dove al centro non c'è il film, ma piuttosto il recensore con le sue idiosincrasie e idolatrie.

      Chiaramente nessuno può pretendere di essere oggettivo e neppure vuole esserlo, anzi a volte può essere molto bello leggere delle reazioni personalissime che una visione ha provocato, ma l'atteggiamento di chi disprezza/osanna film per "darsi un tono" è davvero insopportabile.

      Secondo me una buona regola per alzare il livello della discussione è evitare di usare la parola "capolavoro" che davvero non ha più nessun significato. Spero di non averla mai usata nelle mie farneticazioni :)

      Una curiosità, ma il tuo cognome che diavolo significa??

      Grazie per la tua visita :)

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    2. purtroppo ormai c'è poca gente che parla di cinema e tanti che parlano d'altro, e usano il cinema giusto per darsi un tono, in qualsiasi direzione....

      per un periodo avevo provato a fare le p-re-censioni, è stato un esperimento divertente, ti giro il link (http://onironautaidiosincratico.blogspot.it/2016/04/p-re-censioni-recensioni-presuntuose-di.html)


      una scommessa persa :( https://www.facebook.com/notes/link-depressi-rifatti-e-portati-alla-comicit%C3%A0/scrivi-il-tuo-nome-in-africano/210798958943253/


      grazie a te per la risposta, e per quel che scrivi ^_^

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    3. Ahahah capisco, si tratta di un raffinato gioco enigmistico...

      Esperimento interessante, effettivamente certe recensioni sono talmente generiche (interpretazione magistrale, riflessione sull'oggi, solida sceneggiatura) che si potrebbe scriverle senza aver visto il film... così come ci sono film che ti sembra di aver già visto solo a guardare la locandina (tipo i film con Richard Gere)

      No no, grazie a te

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    4. quanti ricordi con Ricardo. comunque il problema è che non solo le scrivono senza aver visto il film, ma hanno pure l'arroganza di spiegartelo o farti le analisi profonde del menga...e per il fatto che non l'han visto, o non hanno prestato attenzione, non possono entrare nel merito, vanno di "capolavoro" o "merda" così usano quelle argomentazioni trite e ritrite, sentite e già sentite delle due stupide fazioni



      comunque no, grazie a te! xD

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