martedì 8 novembre 2016

La ragazza senza nome (fratelli Dardenne 2016)


Almeno due luoghi comuni cinematografici sono all'opera in quest'ultimo film del prolifico duo di cineasti belgi.

Il primo trope è quello dell'umanità dimenticata. Jenny, medico generico in uno studio alla periferia di Liegi, molto stimata dai suoi pazienti per la sua infaticabile dedizione alla professione, ha già imparato nonostante la giovane età a dominare le sue emozioni in modo che non interferiscano con la carriera e la vita privata. "A loro non interessa nulla della tua stanchezza" è l'insegnamento che impartisce allo stagista Julien dopo essersi raccomandata di non aprire a nessuno la porta dell'ambulatorio al di fuori dell'orario di visita. Quando però una ragazza di colore verrà trovata senza vita a pochi passi dallo studio, Jenny vedrà incrinarsi la sua fredda imperturbabilità, mentre Julien, ormai deciso ad abbandonare la carriera in medicina forse anche a causa degli scarsi incoraggiamenti ricevuti durante lo stage, diventerà per Jenny un rimprovero in carne ed ossa alla sua rigida filosofia professionale.
Il secondo trope è quello del cittadino qualunque che, con coraggio e nobiltà d'animo, porta avanti un'indagine per conto proprio, scontrandosi sia con l'autorità delle forze dell'ordine sia con la brutalità della malavita organizzata. Avendo accesso in quanto medico alle informazioni riservate dei suoi pazienti, Jenny si trova in una posizione privilegiata per condurre un'inchiesta privata allo scopo di dare un nome e una sepoltura dignitosa alla ragazza africana, in parte spinta dal senso di colpa, in parte sotto l'impulso di un genuino imperativo morale. Un po' più difficile credere che i pazienti siano disposti a offrirle confessioni spontanee, specialmente se l'improvvisa loquacità è motivata da una correlazione, decisamente troppo deterministica, fra sensi di colpa e crampi allo stomaco.

C'è molto Velluto Blu nella curiosità un po' incosciente di Jenny, che con le sue ricerche fa venire a galla gli inconfessabili segreti delle oneste famiglie di periferia, portando alla luce nel suo percorso un lato selvaggio della vita di cui non sospettava l'esistenza. In una scena chiave ci sembra addirittura di riascoltare un famoso dialogo tra Isabella Rossellini e Dennis Hopper: "Non mi guardare!"

I Dardenne fanno quasi esclusivamente uso della handheld camera, o camera a mano, la tecnica che forse più di ogni altra imprime spontaneità e immediatezza alla narrazione dal momento che riproduce idealmente il punto di vista di un ipotetico spettatore che si muovesse liberamente all'interno della scena. Rischia però di risultare un po' monotona se usata in modo così sistematico: a mia memoria fa eccezione soltanto una scena ambientata nell'abitacolo di un'auto, dove però ci pensano i sobbalzi del veicolo a compensare l'immobilità della macchina da presa.

La scelta di mantenere il focus sulla protagonista per tutta la durata del film grava di una grande responsabilità l'attrice principale, Adèle Haenel, che però si dimostra sempre all'altezza della parte. Da notare anche come l'abbigliamento di Jenny rifletta il suo stato d'animo: blu quando è in pace con se stessa, rosso nei momenti di crisi e nelle situazioni di pericolo.

La mia scena preferita, che racconterò solo superficialmente, è la penultima del film. C'è tensione, succede qualcosa, si stacca un bottone da un cappotto che abbiamo imparato a conoscere molto bene, ne sentiamo il ticchettio sul pavimento (del bottone, non del cappotto). Quello che mi piace di questo bottone, apparentemente di poca importanza, è che permette ai Dardenne di temporeggiare, rendendo naturale un'attesa che altrimenti sarebbe sembrata forzata e poco credibile. Magnifico.

Il pelo nell'uovo. Jenny si prepara una cena improvvisata a base di soffritto di gradina con pomodori a pezzettoni. Oh my god.

2 commenti:

  1. Metti in home page più articoli, almen 7,8.

    Uno per volta ti rovina, uno vede un solo post sulla home page.

    E se vuoi metterne anche di più, come me, basta che usi l'interruzione di pagina, ovvero quella specie di pagina strappata nell'editor

    dai che stai mettendo ciccia, tra un pò facciamo quella cosa

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