giovedì 23 febbraio 2017

Moonlight (Barry Jenkins 2016)


(Qualche lieve spoiler qua e là)

Buffo che Moonlight venga presentato come la storia di un afroamericano gay cresciuto nei sobborghi di Miami, perché se c'è una cosa che il regista Barry Jenkins evita accuratamente è proprio la categorizzazione. Il protagonista Chiron fin da bambino si fa delle domande riguardo al suo orientamento sessuale, domandandosi perché i suoi amici lo chiamino "frocio", ma il suo amico e padre acquisito Juan lo tranquillizza: non devi darti una risposta adesso, lo capirai quando sarà il momento. Un insegnamento che Chiron interiorizza e si porta appresso fin nell'età adulta.

Ma anche Chiron, come tutti, ha un disperato bisogno di appartenenza, ed è qui che entra in gioco la sua identità "black", dato incontrovertibile, immutabile e, a differenza dell'orientamento sessuale, impossibile da occultare. Si trasforma così nel prototipo del suo persecutore: un thug dal fisico immenso, dentatura d'oro posticcia e mascolinità granitica, fiero della sua auto sportiva nella quale rimbombano i bassi micidiali della musica rap. Soltanto chi lo ha conosciuto nell'età in cui era più fragile può rendersi conto dell'assurdità di quel travestimento, e metterlo di fronte al fatto che, nonostante i denti d'oro e quell'aria da re della malavita, in fondo è rimasto quello di un tempo.

sabato 18 febbraio 2017

Animali notturni (Tom Ford 2016)


La saggezza comune vuole che ogni opera d'arte conservi le tracce del suo autore, rivelandone interessi, debolezze, ossessioni. Non si può scrivere un libro, comporre una canzone, dipingere un quadro senza parlare in qualche misura di se stessi. Vale lo stesso per i film? La domanda è lecita, soprattutto quando un film è il prodotto di talenti diversi ed eterogenei come nel caso delle grandi produzioni: quando sceneggiatura, fotografia, montaggio, scelta del cast, interpretazione, scenografia sono in mano a persone diverse, è più difficile attribuire il risultato finale ad un'unica volontà, stabilire se esso rispecchi o meno una visione artistica distintiva, unica, inconfondibile; in altre parole, è più difficile individuare l'autore dell'opera. E nel caso di Animali notturni questa difficoltà è massima, perché del regista e sceneggiatore Tom Ford, già noto per il suo precedente A single man, nasconde non meno di quanto riveli.

Susan, gallerista e collezionista d'arte di successo, sta attraversando un periodo di profonda crisi con il marito Walker, un affascinante e pragmatico uomo d'affari con il quale condivide una sfarzosa dimora arredata nei minimi dettagli e costellata di opere d'arte. "Condivide" è la parola giusta, dal momento che i due coniugi raramente occupano la stessa stanza, e quando questo capita la conversazione si arena ben presto in un deserto di incomprensione e freddezza. La macchina da presa si adegua a questo clima di tensione isolando Susan in un rettangolo di solitudine che il marito si guarda bene dal valicare, preso com'è dai suoi viaggi d'affari che poi forse tanto d'affari non sono. Quando però le viene recapitata la bozza di un romanzo dedicatole dal suo ex marito Edward, le si spalanca davanti l'abisso di come avrebbe potuto essere la sua vita se in un momento cruciale non avesse barattato la creatività ingenua ma autentica di Edward con la rassicurante solidità priva di slanci che le offriva Walker.

venerdì 10 febbraio 2017

Lavender (Ed Gass-Donnelly 2016)


Lavender è convinto di essere il primo horror nella storia del cinema. Di conseguenza si premura di spiegarci ogni cosa più e più volte, sottolineando ogni ovvio simbolismo e annunciando con grandi fanfare sviluppi che noi spettatori avevamo previsto ben prima che lo sceneggiatore li mettesse su carta. In effetti non è un grande spasso.

Nel 1985, in una casa immersa nei campi di granoturco da qualche parte in Canada, una famiglia viene sterminata. L'unica superstite è la piccola Jane, di circa otto anni, che viene ritrovata con in mano un rasoio insanguinato accanto ai corpi martoriati dei genitori e della sorella Suzie.

Balzo nel 2010, Jane vive in città con il marito e la figlia. Non ricorda nulla della sua infanzia né del massacro che l'ha resa orfana, e neppure è interessata a indagare. L'unico legame con il passato consiste in una fascinazione ossessiva per le vecchie case abbandonate, davanti alle quali cade occasionalmente in una specie di trance, specialmente se in zona ci sono dei campi di granoturco, guarda un po'.

Sicuramente Jane continuerà a vivere nell'oblio come ha fatto negli ultimi 25 anni, non c'è motivo di credere il contrario... e invece no, comincia a ricevere dei regali anonimi che la riportano con la memoria alla tragedia della sua infanzia: una pallina rossa, delle pedine da jacks, delle piccole chiavi, una foto dell'ottobre 1985 che la ritrae con la sua famiglia. Probabilmente tra questi disinteressati omaggi e quella tragedia non c'è alcuna relazione, ma ad ogni buon conto conviene tenere gli occhi aperti.

sabato 4 febbraio 2017

Alps (Yorgos Lanthimos 2011)


Ricordo bene il mio primo approccio con il regista greco Yorgos Lanthimos, perché The lobster era uno dei film di cui avevo atteso con più impazienza l'uscita in sala nel 2015. Fu una grande delusione: il grottesco di cui era intriso mi sembrò studiato a tavolino, addomesticato, e totalmente privo della carica disturbante che contraddistingue le opere autenticamente grottesche. L'operazione di Lanthimos consisteva fondamentalmente nel prendere l'insieme di regole che di norma sta alla base dei rapporti tra esseri umani, sostituirlo con un altro codice del tutto assurdo e tuttavia dotato di una sua coerenza interna (nel mondo M ogni persona X ha il dovere sociale di stabilire una relazione con un'altra persona Y entro un tempo massimo t, pena la trasformazione nell'animale K) e sviluppare una storia "classica" sulla base dell'impianto così definito. Su di me non funzionò: non mi riuscì di accettare una premessa così assurda e schematica allo stesso tempo, e finii per estraniarmi fin da subito.

Sulla scia del successo ottenuto da Lanthimos con The lobster, nel periodo natalizio è finalmente approdato nelle sale italiane questo Alps, più di cinque anni dopo la sua presentazione al festival di Venezia del 2011. In effetti capita sempre più spesso che un film giudicato commercialmente troppo rischioso e dunque ignorato dai distributori italiani al momento della sua release internazionale goda di una distribuzione tardiva qualora opere successive dello stesso regista ottengano il favore del pubblico, oppure in concomitanza con altri eventi che ne favoriscano la popolarità. È la sorte toccata al thriller Tom à la ferme di Xavier Dolan, uscito al cinema soltanto dopo il grande successo di critica e botteghino di Mommy. ma anche a Synecdoche, New York di Charlie Kaufman, del lontano 2008, distribuito in seguito alla morte dell'attore principale Philip Seymour Hoffman avvenuta nel 2014.

Fin dalle prime scene di Alps si ha la sensazione che qualcosa sia fuori posto. Un inflessibile insegnante di danza propina ad una sua giovane allieva una coreografia basata sulle note dei Carmina Burana, non ritenendola ancora pronta per danzare un pezzo pop. Lei tenta di protestare, ma di fronte all'inamovibilità del maestro finisce per desistere con un'arrendevolezza sconcertante: «Chiedo scusa, sei il miglior maestro del mondo!» La scena successiva, apparentemente scollegata, si svolge a bordo di un'ambulanza, dove un'infermiera (che diventerà il personaggio principale) sta chiedendo ad una ragazzina in punto di morte quale sia il suo attore preferito: è forse Johnny Depp? o magari Brad Pitt? vista la criticità delle sue condizioni, non potrebbe fornire una risposta con un leggero cenno del capo?