venerdì 23 dicembre 2016

È solo la fine del mondo. Ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad odiare Xavier Dolan

È solo la fine del mondo.
C'è una barzelletta di Groucho, il vassallo di Dylan Dog, che recita più o meno così:

- Sai che sono capace di giocare dieci partite a scacchi contemporaneamente?
- Perbacco! E come ci riesci?!
- Le perdo tutte e dieci.

La barzelletta mi è tornata in mente durante i titoli di coda di È solo la fine del mondo, mentre osservavo che Xavier Dolan ha lavorato a questo film in veste di:

- regista
- sceneggiatore (da una storia di Jean-Luc Lagarce)
- consulente costumista
- curatore dei sottotitoli in inglese
- curatore della colonna sonora non originale
- montatore.

Può anche darsi che mi sia perso qualcosa eh. Comunque, a parte il fatto che perfino Hitchcock delegava qualcosina ogni tanto, quello che conta alla fine della fiera non è tanto il numero di palline che il giocoliere è capace di far roteare, ma la qualità dello spettacolo. E riguardo alla qualità dell'ultimo spettacolo di Dolan purtroppo le notizie non sono buonissime.

Ma facciamo un passo indietro.

Quattro o cinque anni fa un carissimo amico mi raccomandò la visione di Ho ucciso mia madre (2009). Si trattava, mi disse, del film di esordio di un ventenne regista canadese, una promessa del cinema mondiale, un autentico enfant prodige oltre che terrible, espressioni queste che in seguito avrei ritrovato più e più volte associate a Xavier Dolan. Ebbene, seguii il consiglio del mio amico e trovai il film... carino, né più né meno. La regia per la verità mi sembrò piuttosto piatta, ma in compenso mi conquistarono l'esuberanza ingenua dei dialoghi ed il coraggio con cui veniva affrontata l'omosessualità evidentemente autobiografica del protagonista, interpretato dallo stesso Dolan. Diciamo che per essere un'opera prima, e in più di un regista così giovane effettivamente non era male. Il mio giudizio sarebbe stato lo stesso se il film fosse stato un'opera quarta, o se il regista avesse avuto qualche lustro di più sul groppone? Assolutamente no, l'avrei liquidato senza tante subordinate concessive. Dopodiché, impegnato com'ero a seguire altri registi che mantenevano oltre che promettere, cosa che apprezzo molto in quanto essere umano con un'aspettativa di vita non illimitata, mi dimenticai di Xavier Dolan e della sua promettente carriera.

sabato 17 dicembre 2016

Ikarie XB-1 (Jindřich Polák 1963)


Quando ho deciso di andare a vedere questo film cecoslovacco in bianco e nero di fantascienza del 1963 (ordinate come preferite i complementi di specificazione) presentato quest'anno nella sua versione restaurata al festival di Cannes e poi riproposto al Torino Film Festival, sapevo già che non sarei riuscito a reclutare molti compagni di visione. Forse dovrei dire che in fondo capisco benissimo il loro punto di vista, ma la verità è che non lo capisco per niente, perché alla fine quello che cerco nel cinema è proprio l'incognita, l'imprevisto, l'opportunità di trovarmi a faccia a faccia con qualcosa che è lontano anni luce dal mio modo di vedere e di pensare. Non c'è niente di più avvilente per me del constatare che un film o un libro o un fumetto è esattamente come me lo aspettavo, che l'autore si è fatto in quattro per venire incontro al mio gusto. Brrr.

Non sono rimasto deluso. Ambientato duecento anni nel futuro (è sempre bene tenersi larghi per evitare smentite) Ikarie XB-1 è la storia di una missione spaziale con lo scopo (non originalissimo nel 2016, molto di più nel 1963) di cercare forme di vita sul Pianeta Bianco, un satellite della stella Alpha Centauri (ho controllato: la stella esiste veramente, il pianeta no). Il film si apre con un flashforward in cui uno dei passeggeri si aggira per i corridoi dell'astronave in preda a un delirio di cui capiremo solo in seguito l'origine. Questa scena, insieme al titolo di chiara ispirazione mitologica, proietta un'ombra di incertezza sull'esito della missione, nata come spesso accade sotto i migliori auspici e all'insegna del più ingenuo positivismo.

sabato 10 dicembre 2016

Sully (Clint Eastwood 2016)


Sully non è soltanto un prodotto di intrattenimento ineccepibile, confezionato secondo tutti i crismi del miglior cinema di Hollywood. È anche un film edificante, pensato per soddisfare appieno il nostro desiderio di veder trionfare il bene, se non nella vita almeno sullo schermo, veicolando il messaggio a molteplici livelli.

(Gli spoiler abbondano: in effetti più che una recensione è una riflessione rivolta a chi ha visto il film.)

Le héros c'est moi. Era già evidente da American Sniper (2014) l'interesse di Clint Eastwood per il quidam de populo che si ritrova a compiere atti di eroismo quotidiano durante l'esercizio del suo lavoro. Se però il cecchino protagonista del precedente film operava in un contesto eccezionale quale la guerra in Iraq, da principio l'unica eccezionalità di Chesley "Sully" Sullenberger è il carico di responsabilità che deriva dalla sua professione, tutto sommato ordinaria, di pilota di aerei di linea per una grande compagnia americana. Così come ordinari sono gli eroi secondari che lo aiutano nell'impresa di salvare la vita ai 155 passeggeri del volo 1549: un giovane operatore aeroportuale che gli fornisce tempestive informazioni sulla disponibilità di piste libere, il copilota Jeff Skiles che riesce a mantenere il sangue freddo nonostante l'emergenza, i sommozzatori della guardia costiera ed i tanti volontari senza i quali i passeggeri sarebbero andati incontro a morte certa per congelamento o annegamento nel fiume Hudson. Quello che Eastwood vuole comunicarci è che l'eroismo non è un privilegio riservato a pochi individui eccezionali: ciascuno di noi può diventare eroe se si presenta l'occasione giusta.

Creatività vs. conformismo: 1-0. L'esperienza e lo zelo non sono tutto: nei momenti critici ciò che fa la differenza è la capacità di trovare una soluzione che nessuno è in grado di concepire, unita al coraggio di infrangere il protocollo quando questo è insufficiente a gestire l'eccezionalità della situazione. Il rispetto delle regole non genera eroi; l'infrazione consapevole, sì.

giovedì 1 dicembre 2016

Anticipation, ou l'Amour en l'an 2000 (Jean-Luc Godard 1966)


Nel futuro, il Ministero del Piacere tiene in grande considerazione l'opinione del viaggiatore alieno che tra un viaggio intergalattico e l'altro fa sosta nella stazione aeroportuale terrestre; è comprensibile quindi che i suoi funzionari si adoperino con ogni mezzo per soddisfare i suoi bisogni carnali, così che egli possa conservare un ricordo piacevole del nostro pianeta. Un catalogo delle bellezze nostrane aiuterà il fugace ospite nella scelta dell'articolo con cui trascorrere la notte nell'attesa del prossimo volo.

Ed ecco un alieno piuttosto attraente, di sesso maschile, colore europeo, livello di radioattività normale. La sua scelta ricade su un eccellente articolo di sesso femminile, colore sovietico, livello di radioattività normale o perlomeno uguale al normale. Peculiarità dell'articolo: bellezza sensuale. Tutto sembra in ordine, l'accoppiamento può avere inizio. Ma ecco che qualcosa si inceppa: l'articolo non parla, il cliente non si eccita. D'altronde non è la parola la specializzazione di questo esemplare. Il cliente sporge reclamo: in via eccezionale gli sarà consentito il lusso di una seconda scelta. Opta per un articolo meno sensuale, sempre di sesso femminile, abito a sbuffi, colore europeo, livello di radioattività più che normale. Peculiarità: seduzione verbale. Il cliente non potrà restare insoddisfatto: l'articolo viene dalla Capitale Letteraria, conosce a memoria tutte le parole dell'amore, l'eccitazione è assicurata. Eppure anche questa volta qualcosa non funziona, il cliente non si eccita. Colpa della specializzazione integrata, diritto inalienabile conquistato in anni di lotte: l'amore è un servizio che viene erogato stimolando un senso per volta...

sabato 26 novembre 2016

L'immagine impossibile (Sandra Wollner 2016)


Ogni frequentatore seriale di sale cinematografiche conosce bene la bulimia da prime visioni, quell'impulso profondamente irrazionale a recarsi al cinema il più presto possibile a vedere i film più rilevanti del momento, quelli di cui tutti parlano e su cui è opportuno formarsi un'opinione ben definita, nello sforzo di perpetuare l'illusione di quel "sogno che stiamo sognando tutti insieme" di cui parlava Jean Cocteau. È uscito l'ultimo film di Woody Allen, dicono sia una porcata, ma è pur sempre Woody... e poi mica continuerà a fare film in eterno, conviene goderselo finché c'è. E l'ultimo di Malick? Probabilmente un'altra delle sue prediche intollerabili, eppure se ne parlerà per anni e anni, e sarà bello poter dire, "oh, Voyage of time? L'ho visto quando è uscito in sala!" Il nuovo Star Wars forse potrei risparmiarmelo... ma a dire il vero anche i blockbuster vanno tenuti d'occhio, perché alcuni fanno la storia del cinema, un cinefilo che si rispetti non disdegna una visione soltanto perché popolare. E poi c'è il film di quel venezuelano, aspetta no era un thailandese, comunque va visto as-so-lu-ta-men-te, con ogni probabilità una visione punitiva come poche, ma vuoi mettere, ha vinto il Leone d'Oro...

In fondo siamo tutti vittime del carpe diem, la più grande impostura mai escogitata dall'uomo per rendersi infelice, un virus cognitivo che riesce nella duplice impresa di rendere più amari i rimpianti per le esperienze non vissute, e allo stesso tempo guastare irreparabilmente il piacere del presente con l'idea fasulla di un obbligo da adempiere. Niente di meglio di un bel "cogli l'attimo" per rovinare la giornata a qualcuno. L'ideale sarebbe riuscire ad applicare ai film il consiglio di Pennac: andate al cinema non per passare il tempo o per istruirvi, ma per vivere.

mercoledì 23 novembre 2016

Elle (Paul Verhoeven 2016)


Quando nel 1997 uscì nelle sale Funny games, che valse a Michael Haneke aspre critiche per quello che venne giudicato un uso strumentale e voyeuristico della violenza, il regista dichiarò in propria difesa che si trattava di un gioco con lo spettatore, chiamato ad esercitare la sua libertà di non guardare: l'intento era dunque quello di provocarlo, urtare la sua sensibilità, titillare il suo desiderio di continuare, nonostante tutto, a godersi lo spettacolo. Coloro che si alzano dalla poltrona non hanno bisogno del mio film, dichiarò il regista, mentre chi resta fino alla fine ha bisogno di essere torturato per tutti i 110 minuti della sua durata. È da ipocriti, argomentò Haneke, accettare le regole del gioco per poi protestare una volta che questo è terminato.

Se Funny games si configurava come un'aggressione a mano armata alla sensibilità dello spettatore, che poteva reagire con il rifiuto o la connivenza, Elle assomiglia più a una molestia alla quale non sappiamo bene se opporre resistenza. A giudicare dalla reazione del pubblico, un cinema Massimo stipatissimo in occasione della 34esima edizione del Torino Film Festival, direi che la meglio l'ha avuta il regista Paul Verhoeven.

giovedì 17 novembre 2016

Knight of cups (Terrence Malick 2015)


Ero impaziente di vedere questo Knight of cups, sia perché un film di Malick comunque la si metta è sempre rilevante, sia perché ero curioso di vedere se fosse riuscito ad affrancarsi dal fastidiosissimo To the wonder, che all'epoca interpretai come una solenne quanto fiacca scimmiottatura del precedente e forse inarrivabile The tree of life. Quello che mi sono trovato davanti è un film in equilibrio precario tra prevedibilità e novità, ripetizione di forme già viste e sperimentazione di nuovi percorsi, banalità e profondità.

Malick ci racconta la storia di uno sceneggiatore di mezza età (un disorientatissimo Christian Bale) che cerca di lasciarsi alle spalle l'universo mondano in cui ha sempre sguazzato per recuperare una dimensione più autentica dell'esistenza. Reduce da un matrimonio fallito e ora impegnato nell'ennesima relazione che non riesce a far decollare, si sforza di ricomporre l'intricato puzzle della sua vita, che gli appare come una sequenza insensata e caotica di avvenimenti, puntellata da una traballante figura paterna e dalla presenza intermittente di un fratello irrequieto e instabile. In estrema sintesi è questa la trama, eppure è come se non avessimo detto nulla, perché raccontare quello che succede in Knight of cups è un po' come cercare di descrivere una casa di Gaudì parlando dei pilastri che la sorreggono.

sabato 12 novembre 2016

Io, Daniel Blake (Ken Loach 2016)


"Altro che film, questa è la vita vera..." è il commento di un signore seduto dietro di me. Forse nessun regista come Ken Loach è capace di suscitare una reazione emotiva così prepotentemente irrazionale nello spettatore. Ciò che vediamo sullo schermo non è semplicemente un film, ma un pezzetto di vita rubato ai suburbi anneriti delle città inglesi - o almeno questa è l'impressione. Certo, siamo consapevoli che protagonisti e storia possono essere frutto di invenzione, ma le dinamiche appaiono sempre molto ben radicate nel contesto sociale ed economico in cui i personaggi si muovono, contesto in cui natura e necessità solitamente sembrano avere la meglio sui disegni capricciosi del caso. Dei personaggi di Loach non avremo mai occasione di chiederci, come Nanni Moretti, "ma queste sigarette, questi vestiti, come se li sono procurati?" perché fin dal principio risulta molto chiaro di che cosa campano, che cosa mangiano, che tipo di contratto di locazione hanno stipulato, e anzi tutti questi elementi costituiscono il centro stesso della storia.

Questa storia parla di Daniel, carpentiere vedovo alle soglie della terza età costretto ad un periodo di riposo forzato dai cantieri a causa di un infarto. Ma è solo l'inizio dei suoi problemi: la richiesta del sussidio di invalidità approvata dal medico curante viene respinta dall'assicurazione sanitaria, che invece ritiene Daniel abile al lavoro (una situazione per certi versi simile a quella di Sonia Bonet ne Il mostro dalle mille teste). Gli si aprono due possibilità ugualmente indesiderabili: fare ricorso contro l'assicurazione, con tempi lunghissimi ed esito incerto, oppure richiedere allo Stato il sussidio di disoccupazione, con l'implicita ammissione di idoneità al lavoro e il conseguente obbligo di ricerca attiva e verificabile di un impiego che non è in condizioni di svolgere.

martedì 8 novembre 2016

La ragazza senza nome (fratelli Dardenne 2016)


Almeno due luoghi comuni cinematografici sono all'opera in quest'ultimo film del prolifico duo di cineasti belgi.

Il primo trope è quello dell'umanità dimenticata. Jenny, medico generico in uno studio alla periferia di Liegi, molto stimata dai suoi pazienti per la sua infaticabile dedizione alla professione, ha già imparato nonostante la giovane età a dominare le sue emozioni in modo che non interferiscano con la carriera e la vita privata. "A loro non interessa nulla della tua stanchezza" è l'insegnamento che impartisce allo stagista Julien dopo essersi raccomandata di non aprire a nessuno la porta dell'ambulatorio al di fuori dell'orario di visita. Quando però una ragazza di colore verrà trovata senza vita a pochi passi dallo studio, Jenny vedrà incrinarsi la sua fredda imperturbabilità, mentre Julien, ormai deciso ad abbandonare la carriera in medicina forse anche a causa degli scarsi incoraggiamenti ricevuti durante lo stage, diventerà per Jenny un rimprovero in carne ed ossa alla sua rigida filosofia professionale.

sabato 5 novembre 2016

Un mostro dalle mille teste (Rodrigo Plá 2015)


La proiezione al cinema Greenwich di Torino è stata presentata dal regista, che ha citato il poco conosciuto thriller The conspiracy del regista canadese Christopher MacBride come fonte di ispirazione per Un monstruo de mil cabezas. Nonostante gli sforzi di Plá di mantenere la conversazione ad un livello superficiale per evitare di guastare la visione, l'interprete dalla lingua spagnola presente in sala era chiaramente di un altro avviso. Oltre a rivelare dettagli della trama e a fornire una personale interpretazione della storia, non si è fatto alcuno scrupolo a travisare a più riprese le parole del regista con aggiunte e commenti non richiesti, forse nella convinzione che il motto "tradurre è tradire" costituisse più un alibi per il traduttore piuttosto che la constatazione di un'ineliminabile imperfezione.

Plá costruisce pazientemente il dramma di Sonia, una donna messicana che si vede rifiutare dalla sua assicurazione sanitaria il rimborso di una costosissima terapia lenitiva del dolore per il marito malato terminale di cancro, nonostante il riconoscimento dell'efficacia di questa terapia da parte della medicina ufficiale. Le ristrettezze economiche e la disperazione portano Sonia ad addentrarsi, armata, nel mondo clientelare e corrotto delle assicurazioni, un mondo dove la firma della persona giusta può fare la differenza tra una dipartita dignitosa e una morte atroce.