Ogni frequentatore seriale di sale cinematografiche conosce bene la bulimia da prime visioni, quell'impulso profondamente irrazionale a recarsi al cinema il più presto possibile a vedere i film più rilevanti del momento, quelli di cui tutti parlano e su cui è opportuno formarsi un'opinione ben definita, nello sforzo di perpetuare l'illusione di quel "sogno che stiamo sognando tutti insieme" di cui parlava Jean Cocteau. È uscito l'ultimo film di Woody Allen, dicono sia una porcata, ma è pur sempre Woody... e poi mica continuerà a fare film in eterno, conviene goderselo finché c'è. E l'ultimo di Malick? Probabilmente un'altra delle sue prediche intollerabili, eppure se ne parlerà per anni e anni, e sarà bello poter dire, "oh, Voyage of time? L'ho visto quando è uscito in sala!" Il nuovo Star Wars forse potrei risparmiarmelo... ma a dire il vero anche i blockbuster vanno tenuti d'occhio, perché alcuni fanno la storia del cinema, un cinefilo che si rispetti non disdegna una visione soltanto perché popolare. E poi c'è il film di quel venezuelano, aspetta no era un thailandese, comunque va visto as-so-lu-ta-men-te, con ogni probabilità una visione punitiva come poche, ma vuoi mettere, ha vinto il Leone d'Oro...
In fondo siamo tutti vittime del carpe diem, la più grande impostura mai escogitata dall'uomo per rendersi infelice, un virus cognitivo che riesce nella duplice impresa di rendere più amari i rimpianti per le esperienze non vissute, e allo stesso tempo guastare irreparabilmente il piacere del presente con l'idea fasulla di un obbligo da adempiere. Niente di meglio di un bel "cogli l'attimo" per rovinare la giornata a qualcuno. L'ideale sarebbe riuscire ad applicare ai film il consiglio di Pennac: andate al cinema non per passare il tempo o per istruirvi, ma per vivere.
Rifletto su tutto questo durante la proiezione di L'immagine impossibile (Das unmögliche Bild) della regista austriaca Sandra Wollner, in programma nella sezione Onde del Torino Film Festival. Per quanto interessante, dopo i primi dieci minuti di film mi sono già reso conto di non trovarmi di fronte a una di quelle opere che si definiscono imprescindibili. La regista, presente in sala insieme al direttore della fotografia e alle due attrici principali, tutti piuttosto giovani, tradisce un certo nervosismo per quella che poi scopriamo essere l'anteprima mondiale del suo lungometraggio. Durante la visione posso sentire perfino le loro risate un po' isteriche ogni volta che un anziano personaggio maschile, probabilmente un loro zio o amico, ruba la scena con il suo modo di fare scontroso e adorabile. Insomma, non certo l'atmosfera compassata e ossequiosa che si respirava in quello stesso cinema soltanto un mese prima, quando Gus van Sant aveva presentato il suo Belli e dannati, opera ben più rilevante ormai consacrata nella storia del cinema.
Mentre penso a questo, sullo schermo passano immagini di ragazze adolescenti che bevono succo di lamponi da una brocca, una bambina che si spalma il rossetto sulle labbra, una signora dall'aria truce con un bicchierino di grappa in mano, una carpa in un secchio pronta per essere sviscerata e infornata. L'accostamento erratico di tutti questi frammenti in 8mm dall'aspetto volutamente amatoriale va a comporre la storia di una famiglia tedesca del dopoguerra dominata dalla figura inquietante di una nonna arcigna e pragmatica che con il suo misterioso "club di cucina" (Kochclub) trasforma la casa in un viavai di giovani ragazze, se non fosse che le ragazze in questione, più che cucinare, vengono cucinate. Scopriremo infatti con uno shock che il senso del club è legato a un'espressione oscura, forse intraducibile in italiano: angel maker (Engelmacherin), la fabbricatrice di angeli...
Ispirato al direct cinema, un genere di documentario nato negli Stati Uniti a cavallo degli anni Sessanta che si propone di indagare la realtà minimizzando l'interazione con gli eventi osservati, L'immagine impossibile presenta un punto di vista che diventa sempre più ambiguo man mano che ci avviciniamo alla fine. Inizialmente infatti è chiaro che le riprese sono girate da due ragazze, probabilmente sorelle, che a turno sperimentano il potere contraddittorio della cinepresa di archiviare e allo stesso tempo creare immagini - anche se la divisione in capitoli suggerisce già l'intromissione di una figura autoriale. A partire poi dal capitolo che dà il nome al film diventa sempre più difficile stabilire chi sta dietro l'obbiettivo. I movimenti si fanno più fluidi e studiati, i dialoghi sono resi attraverso un misurato campo e controcampo, il (finto) documentario lascia sempre più spazio alla messinscena. Nelle ultimissime inquadrature, memoria e immaginazione sono ormai indistinguibili.
A questo punto, mentre osservo la carpa nuotare pigramente nei fondali torbidi di uno stagno, bellissima metafora dal sapore lynchano (una delle tante immagini impossibili di questo film, trattandosi di ripresa subacquea di certo irrealizzabile negli anni Cinquanta in un contesto amatoriale) mi rendo conto che ho smesso di preoccuparmi della rilevanza, che questo piccolo film tedesco mi ha assorbito completamente. Sullo schermo ora pulsa il cuoricino della povera carpa sventrata, una scena che non dimenticherò tanto facilmente, e che nella mia testa fa corto circuito con l'immagine di una giovane "cucinata" dalla nonna mannara (l'avete poi googlato Engelmacherin?). Ho finalmente fatto pace con il qui ed ora, non c'è altra sala in cui preferirei trovarmi in questo momento, con buona pace di Gus van Sant.
La proiezione termina, segue un dibattito con i realizzatori. A quanto pare non sono stato l'unico a soccombere alla magia di questo film, c'è elettricità in sala, la troupe viene sommersa dalle domande di un pubblico insolitamente curioso. Un signore anziano prende la parola semplicemente per complimentarsi con la regista, poi c'è chi vuole sapere il motivo della presenza di un personaggio con disabilità, naturalmente parte anche la supercazzola di uno studente del Dams che si domanda, con gran gioia dell'interprete, se il film non avrebbe potuto beneficiare di un livello extra di meta-narrazione, mentre un'altra signora è rimasta così scossa dalla figura dell'Angelo della Morte da arrivare a confondere realtà e finzione, chiedendo rassicurazioni su un suo eventuale ravvedimento. Le risposte di Sandra e dei suoi collaboratori sono eloquentissime, sono felicissimi di parlare del loro lavoro, e il pubblico è all'unisono con il loro entusiasmo.
Apprendiamo che la figura della nonna è ispirata alle testimonianze della nipote di una Engelmacherin realmente vissuta, ma rimane sostanzialmente un personaggio di fantasia. Le riprese sono durate una decina di giorni e a dispetto delle apparenze i dialoghi erano in buona parte scritti. La casa in cui si svolge la storia è quella di una signora di cent'anni deceduta poco prima dell'inizio delle riprese, per cui le stanze sono esattamente come lei le aveva lasciate. Quanto al formato, il direttore della fotografia Timm Kröger ci spiega che si è scelto di usare una cinepresa 16mm, che oltre ad essere più economica di una 8mm lascia la libertà di degradare il formato in un secondo momento. Inoltre, le immagini della ragazza con le stampelle che vediamo all'inizio in realtà sono state girate per ultime, quando Sandra ha avuto l'idea di motivare la prevalenza di riprese in interni (dettata principalmente dal budget limitato) con l'infortunio di una delle due camerawomen. Quanto al ravvedimento dell'Angelo della Morte, sembra che non sia pervenuto: a detta della nipote, più di professionalità che di aridità d'animo si trattava, insomma è fuori luogo affrontare la questione sul piano morale. Ci sarebbero state altre domande, ma il festival deve continuare.
Sono uscito dalla sala rinvigorito, consapevole di aver assistito a qualcosa di irripetibile, e felice di aver spezzato la catena delle visioni imperdibili. Un film così pieno di suggestioni, e allo stesso tempo così trascurabile nell'economia dell'universo cinematografico (anche se auguro di tutto cuore a Sandra Wollner di ottenere ulteriori riconoscimenti per il suo bellissimo lavoro) ha il potere di neutralizzare ogni malsana ossessione compilativa. Stasera? Ci sarebbe il nuovo film di quel pluripremiato regista papuasiatico...
Ispirato al direct cinema, un genere di documentario nato negli Stati Uniti a cavallo degli anni Sessanta che si propone di indagare la realtà minimizzando l'interazione con gli eventi osservati, L'immagine impossibile presenta un punto di vista che diventa sempre più ambiguo man mano che ci avviciniamo alla fine. Inizialmente infatti è chiaro che le riprese sono girate da due ragazze, probabilmente sorelle, che a turno sperimentano il potere contraddittorio della cinepresa di archiviare e allo stesso tempo creare immagini - anche se la divisione in capitoli suggerisce già l'intromissione di una figura autoriale. A partire poi dal capitolo che dà il nome al film diventa sempre più difficile stabilire chi sta dietro l'obbiettivo. I movimenti si fanno più fluidi e studiati, i dialoghi sono resi attraverso un misurato campo e controcampo, il (finto) documentario lascia sempre più spazio alla messinscena. Nelle ultimissime inquadrature, memoria e immaginazione sono ormai indistinguibili.
A questo punto, mentre osservo la carpa nuotare pigramente nei fondali torbidi di uno stagno, bellissima metafora dal sapore lynchano (una delle tante immagini impossibili di questo film, trattandosi di ripresa subacquea di certo irrealizzabile negli anni Cinquanta in un contesto amatoriale) mi rendo conto che ho smesso di preoccuparmi della rilevanza, che questo piccolo film tedesco mi ha assorbito completamente. Sullo schermo ora pulsa il cuoricino della povera carpa sventrata, una scena che non dimenticherò tanto facilmente, e che nella mia testa fa corto circuito con l'immagine di una giovane "cucinata" dalla nonna mannara (l'avete poi googlato Engelmacherin?). Ho finalmente fatto pace con il qui ed ora, non c'è altra sala in cui preferirei trovarmi in questo momento, con buona pace di Gus van Sant.
La proiezione termina, segue un dibattito con i realizzatori. A quanto pare non sono stato l'unico a soccombere alla magia di questo film, c'è elettricità in sala, la troupe viene sommersa dalle domande di un pubblico insolitamente curioso. Un signore anziano prende la parola semplicemente per complimentarsi con la regista, poi c'è chi vuole sapere il motivo della presenza di un personaggio con disabilità, naturalmente parte anche la supercazzola di uno studente del Dams che si domanda, con gran gioia dell'interprete, se il film non avrebbe potuto beneficiare di un livello extra di meta-narrazione, mentre un'altra signora è rimasta così scossa dalla figura dell'Angelo della Morte da arrivare a confondere realtà e finzione, chiedendo rassicurazioni su un suo eventuale ravvedimento. Le risposte di Sandra e dei suoi collaboratori sono eloquentissime, sono felicissimi di parlare del loro lavoro, e il pubblico è all'unisono con il loro entusiasmo.
Apprendiamo che la figura della nonna è ispirata alle testimonianze della nipote di una Engelmacherin realmente vissuta, ma rimane sostanzialmente un personaggio di fantasia. Le riprese sono durate una decina di giorni e a dispetto delle apparenze i dialoghi erano in buona parte scritti. La casa in cui si svolge la storia è quella di una signora di cent'anni deceduta poco prima dell'inizio delle riprese, per cui le stanze sono esattamente come lei le aveva lasciate. Quanto al formato, il direttore della fotografia Timm Kröger ci spiega che si è scelto di usare una cinepresa 16mm, che oltre ad essere più economica di una 8mm lascia la libertà di degradare il formato in un secondo momento. Inoltre, le immagini della ragazza con le stampelle che vediamo all'inizio in realtà sono state girate per ultime, quando Sandra ha avuto l'idea di motivare la prevalenza di riprese in interni (dettata principalmente dal budget limitato) con l'infortunio di una delle due camerawomen. Quanto al ravvedimento dell'Angelo della Morte, sembra che non sia pervenuto: a detta della nipote, più di professionalità che di aridità d'animo si trattava, insomma è fuori luogo affrontare la questione sul piano morale. Ci sarebbero state altre domande, ma il festival deve continuare.
Sono uscito dalla sala rinvigorito, consapevole di aver assistito a qualcosa di irripetibile, e felice di aver spezzato la catena delle visioni imperdibili. Un film così pieno di suggestioni, e allo stesso tempo così trascurabile nell'economia dell'universo cinematografico (anche se auguro di tutto cuore a Sandra Wollner di ottenere ulteriori riconoscimenti per il suo bellissimo lavoro) ha il potere di neutralizzare ogni malsana ossessione compilativa. Stasera? Ci sarebbe il nuovo film di quel pluripremiato regista papuasiatico...
Chissà perché, oggi mi è venuta in mente una possibile traduzione italiana di Engelmacherin: accabadora.
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