mercoledì 30 ottobre 2019

Joker (Todd Phillips 2019)


Riuscire a formulare un giudizio sereno e spassionato su un film come Joker non è cosa semplice. Da una parte c'è il film come oggetto puramente cinematografico, come prodotto creativo di cui possiamo evidenziare pregi e difetti, mettere in luce struttura e tematiche. Dall'altra c'è il film come gigantesco evento collettivo che straborda gli argini dello schermo per riversarsi nei canali social, nel dibattito culturale contemporaneo e perfino nelle piazze, se pensiamo che la maschera del Joker è diventata persino uno dei simboli delle recenti proteste in Libano. Entrambi questi aspetti sono imprescindibili.

Il trionfo a Venezia deve aver fomentato non poco l'inedita polarizzazione di reazioni che Joker ha scatenato in egual misura in pubblico e critica. Perfino i detrattori sembrano non essere d'accordo fra loro: alcuni lo stroncano in quanto psicologicamente superficiale, altri ne denunciano la vacuità delle istanze politiche, mentre i puristi dei cosiddetti cinecomic si indignano per l'eccessiva disinvoltura con cui Todd Phillips avrebbe affrontato la storia in parte già codificata dell'arcirivale di Batman. Quanto agli estimatori, non è chiaro se il punto di forza di Joker risieda nell'inedita profondità di un personaggio che nella letteratura non supera in spessore la carta da gioco da cui trae il nome, nell'originalità della sua iconografia, destinata probabilmente a imprimersi indelebilmente nella coscienza collettiva, o piuttosto nella carica sovversiva con cui si scaglia contro ogni establishment. Comunque la si voglia pensare, è difficile sovrastimare l'importanza di un film capace di provocare una tale varietà di giudizi. E per un volta tanto, anziché costituire un fattore di disturbo, è proprio questa inconciliabilità di visioni a fornire l'indizio più importante per capire Joker. Come direbbe Sorrentino hanno tutti ragione, e il motivo è da ricercare nella natura profondamente ibrida di questo film e nella sua adesione alle convenzioni di almeno sei differenti generi cinematografici che ne fanno un oggetto difficilmente classificabile.

domenica 10 febbraio 2019

Tramonto (László Nemes 2018)


Ogni civiltà ha in sé il germe del proprio disfacimento. Questo sembra essere l'assunto fondamentale di Tramonto, ultimo film del regista ungherese László Nemes già autore de Il figlio di Saul che nel 2016 gli valse l'Oscar come miglior film straniero. Qui il regista ungherese mette in scena il periodo immediatamente precedente uno dei maggiori slittamenti di paradigma del secolo scorso, quel primo conflitto mondiale che travolse l'impero austro-ungarico e sconvolse l'Europa, e lo fa raccontando la storia di Írisz Leiter, giovane modista ungherese di ritorno a Budapest dopo una giovinezza trascorsa a Trieste. I genitori, proprietari della rinomata cappelleria Leiter, perirono in un incendio quando lei era troppo piccola per avere dei ricordi, e i nuovi gestori ora guardano a lei con sospetto e uno strano timore reverenziale, come se la sua sola presenza fosse presagio di mala sorte e bancarotta, oltretutto proprio nei giorni in cui fervono i preparativi per il trentesimo anniversario dell'attività. Ma non si tratta soltanto del buon nome della ditta: con il suo ritorno in patria, Írisz sembra aver messo in moto una serie di eventi di cui le sfugge il significato, e che oltre a lei potrebbero coinvolgere un altro membro della famiglia di cui ignorava l'esistenza. Quale oscuro segreto si nasconde nel suo passato, e quale misteriosa forza la spinge a mettere a rischio la propria vita per disseppellirlo?

martedì 29 gennaio 2019

La Favorita (Yorgos Lanthimos 2018)


Avrebbe potuto restare nella sua zona di comfort e raccontarci una storia di alienazione, perversione, disumanità come solo lui sa fare. Chiedere agli attori di recitare come automi, dimenticare cosa significa essere umani, parlare di tutto fuorché di emozioni, e ridere soltanto quando è fuori luogo, come i conigli borghesi di Inland Empire. Rappresentare il sesso come una mera funzione biologica priva di qualunque trasporto, fuorché per brevi spasimi disperati. E avrebbe potuto filmare tutto questo con occhio cinico e spietato, con la freddezza del campo lungo e immobile, e rinunciando all'intimità del primo piano e alla vitalità della macchina mobile. Ma Lanthimos ha deciso di andare oltre, sfidarsi, avventurarsi in terra straniera come la protagonista di quello che non so più se considerare il suo film più bello. E ha scelto di spostarsi nel diciottesimo secolo per raccontare la storia di una regina tormentata e annichilita dagli anni, sul cui volto pure si accendono rari, luminosi sprazzi di felicità, e della sua relazione con una donna più abile a governare di lei, ma altrettanto incapace di riconoscere l'opportunismo che si annida nel cuore di chi ha perso tutto ed è disposto a sacrificare la propria dignità per riacquistarlo.