Ma le conseguenze di questo approccio insulso non si limitavano a una semplice perdita di tempo. Concentrare la mia attenzione soltanto su "capolavori" e film "di rilievo" da una parte aveva ottenebrato le mie facoltà di giudizio, perché in qualche modo mi sembrava doveroso uniformarmi all'opinione condivisa di gente molto più preparata di me in materia, e dall'altra aveva appiattito l'esperienza della visione a una mera fruizione, perché ogni emozione era subordinata alla smania di conoscenza. Invece di reagire semplicemente alle immagini che mi passavano davanti, mi sforzavo, fotogramma dopo fotogramma, di riconoscerne la grandezza. A ciò si aggiungeva una crescente insofferenza verso i film che i più giudicavano mediocri (mi tenevo bene alla larga da titoli del tipo L'amore e altre catastrofi) o irrilevanti nel panorama cinematografico (perché sprecare energie per L'amore sospetto quando al mondo esisteva Chinatown?). Com'era prevedibile, con questo sistema persi ben presto quella scintilla che da sempre mi aveva portato al cinema.
Non mi ero inventato nulla: stilare liste era l'ossessione del nuovo millennio, e io c'ero cascato come un allocco. C'è voluto molto tempo prima che mi liberarassi da questa trappola mentale, e a volte, specialmente quando sta per essere distribuito qualche film "imprescindibile", complice anche l'hype mediatico che circonda ogni nuova uscita in sala, ci ricasco con la stessa idiozia di allora. Ma fortunatamente non è successo con Psycho, almeno non questa volta: la proiezione, parte di una rassegna del Massimo 3 torinese dedicata al periodo hollywoodiano di Alfred Hitchcock, mi ha dato l'occasione di riscoprire questo film con occhi nuovi e senza alcun timore reverenziale, un po' come se invece di una pietra miliare del cinema mondiale stessi guardando una puntata de La signora in Giallo. Di seguito qualche considerazione sparsa.