martedì 29 gennaio 2019
La Favorita (Yorgos Lanthimos 2018)
Avrebbe potuto restare nella sua zona di comfort e raccontarci una storia di alienazione, perversione, disumanità come solo lui sa fare. Chiedere agli attori di recitare come automi, dimenticare cosa significa essere umani, parlare di tutto fuorché di emozioni, e ridere soltanto quando è fuori luogo, come i conigli borghesi di Inland Empire. Rappresentare il sesso come una mera funzione biologica priva di qualunque trasporto, fuorché per brevi spasimi disperati. E avrebbe potuto filmare tutto questo con occhio cinico e spietato, con la freddezza del campo lungo e immobile, e rinunciando all'intimità del primo piano e alla vitalità della macchina mobile. Ma Lanthimos ha deciso di andare oltre, sfidarsi, avventurarsi in terra straniera come la protagonista di quello che non so più se considerare il suo film più bello. E ha scelto di spostarsi nel diciottesimo secolo per raccontare la storia di una regina tormentata e annichilita dagli anni, sul cui volto pure si accendono rari, luminosi sprazzi di felicità, e della sua relazione con una donna più abile a governare di lei, ma altrettanto incapace di riconoscere l'opportunismo che si annida nel cuore di chi ha perso tutto ed è disposto a sacrificare la propria dignità per riacquistarlo.
(presenti spoiler)
La regina è Anna Stuart, che regnò in Gran Bretagna nei primi anni del '700. Viene dipinta come una donna fragile, lunatica, con scarsa attitudine all'amministrazione dello stato («è giusto che i nostri uomini combattano... per ciò per cui bisogna combattere!») e una grande passione per gli animali di piccola taglia. In una grande sala viene allestito un circuito per la corsa delle anatre cui i nobili partecipano con grottesco entusiasmo, mentre nella stanza da letto della regina diciassette conigli razzolano in altrettante gabbie, simulacri viventi dei diciassette figli ai quali Anna, contro ogni regola di natura, è sopravvissuta. Tra i capricci cui si lascia andare per combattere la depressione va ricordato anche quello di rincorrere aragoste tra arazzi e broccati, bizzarria che ci fornisce una misura abbastanza precisa di quanto il dolore di ritrovarsi madre senza figli unito a una salute malferma abbia finito con lo schiantare la sua natura più giocosa e autentica. E quanto più ci dà pena vederla soffrire e inveire rabbiosamente alla vista di una piccola orchestra di giovani musicisti che si esercita all'aria aperta, tanto più ci rallegriamo quando la sua compagna Sarah la spinge con la carrozzina a tutta velocità per i corridoi dell'imponente reggia nella quale se ne sta rinchiusa come un coniglio nella sua splendida gabbia, o quando le sue guance emaciate prendono colore perché grazie alla sua magnanimità si è potuto celebrare il matrimonio tra un giovane aristocratico e la sua favorita Abigail, serva di corte e cugina di Sarah nonché nobile decaduta ora riammessa ai ranghi.
Il rapporto che si crea tra le tre donne è complesso e non riducibile alla forma del triangolo. Sarah ama Anna di un amore incondizionato, anche se ciò comporta il dover rilevare che non sempre l'avvenenza procede di pari passo con la maestà. Abigail è certamente infida e priva di scrupoli, ma l'effetto balsamico che le sue lusinghe producono sull'umore di Anna è palpabile, e induce Sarah ad abbassare la guardia quel tanto che basta per farsela soffiare da sotto il naso. Con Sarah Anna è più felice, ma anche meno equilibrata e padrona di sé, anzi, soltanto l'assenza della regina-ombra le darà infine lo spazio e la forza necessari a riprendere in mano le redini del regno e a raggiungere una sorta di stabilità emotiva. Anche Abigail ha le sue sfumature e contraddizioni: per tutto il corso del film si distingue per ruffianeria e opportunismo, eppure quando getta nel fuoco la lettera che sancisce il definitivo allontanamento di Sarah la sua sofferenza è autentica, come se a guidare la sua mano non fosse la cattiveria, ma piuttosto un misterioso impulso meccanico che le impone di incarnare, fino alla fine, lo scorpione della fiaba. Anche la regina, dal canto suo, sa essere spietata e vendicativa; se in un primo momento ci appare come una creatura indifesa, succube, suggestionabile, in seguito non esiterà ad abusare del suo potere per soddisfare un insopprimibile desiderio di rivalsa. L'ultima scena lascia l'amaro dubbio che forse, con un po' di intelligenza, un compromesso vantaggioso per ogni parte lo si sarebbe potuto trovare, anziché marcire ciascuna nella propria privata solitudine.
Ma La Favorita non è soltanto sentimenti feriti e abbracci spezzati. Si ride molto e spesso, un po' per i dialoghi brillanti (forse l'aspetto che meno mi sarei aspettato di trovare in un film di Lanthimos), un po' per la corporeità selvatica dei personaggi, che ora si lanciano in anacronistici pas de deux (la scena del ballo finisce dritta negli annali del cinema insieme a quella del compleanno in Kynodontas), ora ruzzolano nei prati scambiandosi cazzotti come pegno d'amore. Proprio come la bifronte protagonista, l'anima del film è lacerata, divisa, oscillante tra i poli opposti di un edonismo sfrenato e di un profondo, inguaribile senso di disperazione. Lanthimos sguazza in questa ambiguità con perfetta disinvoltura, trovando nelle eccentricità della corte inglese del Settecento il terreno ideale per coltivare quel senso per il grottesco che è forse il nucleo più autentico della sua poetica, e che innestato nella normalità della società contemporanea rischiava di sconfinare nell'esasperazione, come ne Il sacrificio del cervo sacro. Evitando invece di concentrare l'attenzione sul conflitto tra individuo e società, con una storia che pure si prestava ad essere raccontata da una prospettiva queer, Lanthimos ritrova paradossalmente una dimensione di umanità che nei suoi film precedenti mancava. Non più solo automi, dunque, alla ricerca di un'impossibile collocazione in un mondo popolato da esseri umani – aspetto di cui rimane traccia nella ferocia lucida e razionale del personaggio di Abigail – ma anche esseri umani (e, soprattutto, donne) che, come aragoste in un salotto, se ne infischiano di integrarsi all'ambiente cui appartengono, e riescono così a preservare la propria autenticità in un mondo governato da damerini imbellettati.
Lanthimos non osserva tutto ciò attraverso la fredda lente di un microscopio, al contrario, fa largo uso di grandangoli per falsare proporzioni ed esasperare distanze, specialmente nelle scene ambientate in interni. Lo sbrocco della regina di fronte ai giovani musicisti è preannunciato da un'inquadratura morbosamente deformata del corridoio che fiancheggia il giardino; qui la curvatura dell'immagine è talmente accentuata che è come se la carrozzina semovente di Anna stesse orbitando attorno a un punto lontanissimo e irraggiungibile. Come il vecchio misantropo di un racconto di Joyce, Anna in certi momenti ha la chiara percezione di essere esclusa dal banchetto della vita, nonostante la corona che porta. Il grandangolo ha anche l'effetto di imprigionare l'infelice come in una morsa; lo spazio incombe, si ripiega su se stesso, si accartoccia, con tutte le sue inutili suppellettili e i tendaggi dai colori smorti. E quelle rare volte in cui dalla finestra entra una melodia, un po' di luce e d'aria fresca, lo shock è talmente forte che la regina dev'essere trasportata d'urgenza nelle sue stanze.
La narrazione segue una divisione in capitoli, ciascuno intitolato a una frase, non necessariamente saliente, che vi verrà pronunciata. Questo gusto per il dettaglio irrilevante a rappresentazione di un contesto più ampio è tipico di certo cinema odierno; il Suspiria di Guadagnino, con la sua "pera a fette" che dà il titolo all'ultimo capitolo, ne è un esempio. In effetti non sembra che l'intenzione di Lanthimos sia quella di stravolgere le regole del cinema contemporaneo, quanto piuttosto di appropriarsene per poi rivitalizzarle dall'interno, in veste di infiltrato, accettando di rispettare i dettami del genere a patto di poter perseguire la propria personalissima poetica. Ne La Favorita troviamo addirittura un'applicazione esilarante del classicissimo principio drammaturgico della pistola di Cechov, che fa divieto di mostrare un'arma a meno che questa non debba deflagrare in un atto successivo. In questo caso la genialità di Lanthimos consiste non tanto nel sorprenderci con una deflagrazione inaspettata, quanto nell'annunciare scopertamente che ciò avverrà, e ciononostante coglierci impreparati.
Lanthimos si conferma uno dei registi più sperimentali e imprevedibili del cinema contemporaneo. Sono felice di abitare in uno degli universi paralleli in cui Kynodontas, Il sacrificio del cervo sacro e La favorita coesistono senza provocare paradossi spazio-temporali (nonché uno degli universi in cui Björk ha prodotto un album jazz in lingua islandese, ma questo è un altro discorso), ed è bello godersi lo spettacolo in prima fila. Difficile prevedere cosa ci riserverà il regista greco negli anni a venire, ma di certo ne vedremo delle belle.
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Una piacevole sorpresa! E finalmente uno che ha colto il senso di quei dannati grandangoli XD
RispondiEliminaAnche a te ha sorpreso questo inedito Lanthimos? Cosa si dice in giro di questi grandangoli? Ricordo una recensione del critico Vieri Razzini su teodorafilm che definiva il fisheye una "porcheria caduta in vituperio negli anni settanta" o qualcosa del genere!
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