sabato 28 gennaio 2017

Arrival (Denis Villeneuve 2016)


Denis Villeneuve si conferma ancora una volta uno dei migliori registi in circolazione. Arrival è tante cose insieme - un film di fantascienza ambizioso e intelligente, un elaborato mind-game movie, un inno alla cooperazione fra civiltà, una raffinata speculazione sulle capacità del linguaggio di creare empatia e abbattere barriere mentali. Non raggiunge la perfezione, qualunque cosa essa sia: come la maggior parte dei suoi film, soffre di un'esasperazione di toni che rischia di rendere la visione un po' indigesta, ed inoltre fa un uso non del tutto onesto del montaggio per condurre lo spettatore su una falsa pista, concedendogli l'illusione dell'onniscienza per poi smontare progressivamente le sue certezze sul finale. Sono inezie in confronto a tutto ciò che funziona, ma è proprio di inezie che vorrei parlare oggi.

Quando sul suolo terrestre atterrano dodici navicelle spaziali abitate da alieni dalle intenzioni non manifeste sul pianeta si scatena una corsa preventiva agli armamenti in vista di un eventuale conflitto. Nel frattempo la linguista Louise viene incaricata di coordinare una task force composta da scienziati di varia estrazione con lo scopo di stabilire un canale di comunicazione con gli alieni, nella speranza di scongiurare lo scontro di civiltà per mezzo della diplomazia. Inizia così una corsa contro il tempo per cercare di decifrare gli strani logogrammi fluttuanti che gli "eptapodi" dipingono a mezz'aria con l'inchiostro dei loro tentacoli, compito che si rivela ancora più arduo nel momento in cui i ricordi annebbiati di una maternità travagliata iniziano ad affollare la mente sovraccarica e confusa di Louise, interferendo con i suoi pensieri coscienti in modi che le sfuggono completamente.

Arrival si presenta come un rompicapo perfettamente congegnato, dalla logica interna inattaccabile, anche se, come ogni storia che ammetta al suo interno la possibilità di una contraddizione (sto cercando di rimanere sul vago per non spoilerare) richiede un salto di fede da parte nostra per poter essere creduta. All'uscita dal cinema le seghe mentali sono d'obbligo, visto che lo scioglimento dell'enigma centrale del film ci obbliga a riconsiderare sotto una nuova luce tutto ciò che abbiamo visto fino a quel momento. Ma per quanto sia affascinante realizzare come ogni cosa si incastri perfettamente (anche se personalmente ho ancora qualche dubbio sulla presenza del canarino nel ritratto...) non sono tuttavia riuscito a liberarmi della sensazione che Villeneuve abbia giocato un po' sporco. Cerco di spiegarmi meglio.

venerdì 20 gennaio 2017

Crumb (Terry Zwigoff 1994)


Chissà se Terry Zwigoff si aspettava di scoperchiare un simile vaso di Pandora quando concepì l'idea di un documentario sulla vita e la carriera di Robert Crumb, celebre fumettista e illustratore statunitense. Non che le controversie legate alle opere e alla vita privata di questo eccentrico artista lasciassero immaginare una personalità facile e un universo familiare ameno, ma ciò che la cinepresa di Zwigoff si trova a documentare supera ogni immaginazione per sconfinare gradualmente nel regno della della più cupa follia, sollevando accidentalmente importanti interrogativi riguardo all'opportunità di mostrare il volto indifeso della malattia mentale in nome dell'autenticità e dell'arte.

Zwigoff fa una lunga carrellata delle diverse fasi artistiche di Crumb, dalle prime esperienze come illustratore al periodo underground-psichedelico, passando per gli anni in cui lavorò come fumettista per l'autoprodotta rivista Weirdo, fino alle opere più disturbanti che gli valsero l'ostilità di una grossa fetta del suo pubblico affezionato. Ne viene fuori l'immagine di un artista che, come il "tenero barbaro" di Bohumil Hrabal, fa della sua arte una strana forma di psicoterapia, e della sua penna una "valvola che raffredda la caldaia surriscaldata del suo cervello". Nel tracciare l'arco di questa singolare carriera artistica il regista si serve sia di materiale di repertorio che della testimonianza diretta dello stesso Crumb, il quale acconsentì, dopo una forte riluttanza iniziale, a convivere con l'ingombrante presenza delle telecamere per circa una settimana del 1994. Telecamere che non si accontentano di inquadrarlo nella sua quotidianità, in presenza della moglie e dei figli, ma si spingono sempre più oltre nell'intimità di Robert, arrivando anche a riprendere ciò che resta della sua famiglia d'origine: la madre, schiva e trasandata, anche detta affettuosamente "Mother"; il fratello Charles, rinchiusosi nella casa materna circa vent'anni prima e ora incapace di un qualsiasi contatto con il mondo esterno; e il secondo fratello Maxon, illustratore di minor talento e fortuna dall'equilibrio psichico vacillante.

sabato 14 gennaio 2017

Caravaggio (Derek Jarman 1986)


Si comincia dalla fine: Caravaggio giace sul letto di morte assistito da Jerusalem, il servo muto che per tutta la vita ha macinato polveri colorate per farne pigmenti da stendere sulla tela del maestro. In preda al delirio della febbre malarica, il moribondo ripercorre i momenti salienti della sua vita: l'adolescenza tra pittura di strada e prostituzione, le prime commissioni importanti e la raggiunta notorietà sotto la protezione del mecenate e cardinale Francesco Maria del Monte, il triangolo artistico-amoroso con l'irruento Ranuccio (interpretato da Sean Bean, attore che mi assicurano essere molto famoso) e la sua volubile compagna Maddalena (il primo ruolo di Tilda Swinton sul grande schermo).

Difficile distinguere verità storica e invenzione poetica in questo celebre e bellissimo lungometraggio del fu regista inglese Derek Jarman, ispirato alla vita del pittore Caravaggio, al secolo Michelangelo Merisi (1571 - 1610). D'altra parte non è nelle intenzioni di Jarman restituire un ritratto fedele del pittore, quanto piuttosto comporre una sorta di poema visivo prendendo spunto dagli episodi biografici di un artista con cui condivide lo sperimentalismo radicale e forse anche un certo modo di rapportarsi all'arte e alla vita. Lo schermo di Jarman è un telo con una duplice funzione. Da una parte ricrea le situazioni che hanno dato origine ai quadri più celebri di Caravaggio, facendo mirabile uso della luce e della profondità. Canestre di frutta, modelli dall'apparenza efebica, lottatori di strada posano immobili in attesa di essere trasfigurati dal pennello (fittizio) di Caravaggio e dalla cinepresa (reale) di Jarman. Dall'altra parte il regista si sbizzarrisce a creare composizioni inedite e personalissime, spalmando sullo schermo fango rappreso e succo di limone, mescolando il sudore della lotta con i fiotti di sangue.

sabato 7 gennaio 2017

11 minuti (Jerzy Skolimowski 2015)


Stratificato, complesso e imperscrutabile, 11 minuti è un film che merita di essere visto e rivisto per cogliere appieno la logica inesorabile che governa le sue innumerevoli ramificazioni. Eppure nessuna visione potrà mai cancellare la sensazione di un qualcosa che sfugge definitivamente alla nostra comprensione, un tassello mancante che potrebbe forse dare un senso agli avvenimenti di cui siamo testimoni ma che in nessun modo riusciamo a indovinare.

Sullo sfondo di un'affollata metropoli polacca Skolimowski si diverte a far convergere, nell'arco temporale di 11 fatali minuti e nello spazio di un isolato, i destini di un gruppo eterogeneo di persone, costruendo così un esempio perfetto di quella che in letteratura viene talvolta chiamata network narrative. Se in un primo momento il numero di personaggi e la grande varietà di supporti video utilizzati (smartphone, telecamere portatili, monitor di sorveglianza) possono disorientare, a poco a poco il montaggio alternato ci consente di familiarizzare senza sforzo con la vicenda di ogni singolo personaggio, mentre il replay di una stessa scena da punti di vista diversi ci permette di incastrare l'uno con l'altro i tasselli di questo intricato mosaico.

Come spesso capita con le narrazioni "a incastro" si finisce per chiedersi se ciò che accade è opera del caso o se esiste piuttosto una qualche volontà oltreumana che manovra le esistenze dei protagonisti, ma sarebbe vano cercare una chiave interpretativa all'interno del film, che anzi Skolimowski si premura di disseminare di falsi indizi in modo da confondere il più possibile le carte in tavola. Inutile quindi arrovellarsi troppo sul significato di segni premonitori che pur avendo una chiara connotazione religiosa non necessariamente vanno a comporre una chiave di lettura "teleologica": una colomba che si schianta su uno specchio, un pipistrello intrappolato in ascensore, un passante che porta a spalle una grossa croce di legno, un inspiegabile fenomeno astronomico... In compenso la simbologia religiosa ci dà, a mio parere, alcune informazioni preziose sul modo in cui è stato pensato e costruito l'edificio del film.

domenica 1 gennaio 2017

La mano (Jiří Trnka 1965)

Ruka.
Un umile vasaio trascorre la sua serena esistenza plasmando vasi di terracotta nella soffice intimità delle sue quattro mura domestiche, un microcosmo composto da pochi semplici oggetti: una pianta di rose, un letto, uno specchio, una finestra su un prato cinguettante, un mobile a due ante, un acquaio e un tornio a pedale. Finché un giorno non si presenta alla sua porta una malevola Mano guantata, che gli intima di realizzare una scultura celebrativa raffigurante una mano con il pugno chiuso e l'indice alzato nell'atto di impartire un ordine. Dapprima lo scultore si rifiuta categoricamente di mettere la propria arte al servizio del dispotico committente, nonostante la ricompensa offerta sia molto allettante: gloria, denaro, quieto vivere, piacere sessuale. Quando però le minacce e i ricatti sfoceranno nella violenza dovrà rassegnarsi a diventare una marionetta asservita ad un potere che ingabbia e annichilisce, da cui fuggire è impossibile se non a costo della stessa vita...

Opera ultima del celebre sceneggiatore, illustratore e animatore ceco Jiří Trnka, non stupisce che il cortometraggio La mano (in ceco Ruka) fosse stato messo (tardivamente) al bando in seguito alla morte dell'autore avvenuta nel dicembre del 1969, ossia circa un anno e mezzo dopo l'occupazione della Cecoslovacchia da parte dei carri armati sovietici, evento che riconsegnò il Paese nell'orbita di influenza sovietica dopo il breve tentativo di democratizzazione ad opera del riformista slovacco Alexander Dubček. Impossibile infatti non riconoscere nella Mano guantata che minaccia il protagonista l'allegoria di un potere che stritola l'iniziativa personale e la libera espressione artistica, sorte questa toccata a molti intellettuali vissuti all'ombra del dominio sovietico. A questo proposito è triste constatare una contraddizione insanabile di molti poteri dittatoriali: l'intelligenza che è capace di riconoscere il valore iconoclasta e rivoluzionario di un'opera d'arte è la stessa che la mette all'indice e la etichetta come "arte degenerata".