sabato 26 novembre 2016

L'immagine impossibile (Sandra Wollner 2016)


Ogni frequentatore seriale di sale cinematografiche conosce bene la bulimia da prime visioni, quell'impulso profondamente irrazionale a recarsi al cinema il più presto possibile a vedere i film più rilevanti del momento, quelli di cui tutti parlano e su cui è opportuno formarsi un'opinione ben definita, nello sforzo di perpetuare l'illusione di quel "sogno che stiamo sognando tutti insieme" di cui parlava Jean Cocteau. È uscito l'ultimo film di Woody Allen, dicono sia una porcata, ma è pur sempre Woody... e poi mica continuerà a fare film in eterno, conviene goderselo finché c'è. E l'ultimo di Malick? Probabilmente un'altra delle sue prediche intollerabili, eppure se ne parlerà per anni e anni, e sarà bello poter dire, "oh, Voyage of time? L'ho visto quando è uscito in sala!" Il nuovo Star Wars forse potrei risparmiarmelo... ma a dire il vero anche i blockbuster vanno tenuti d'occhio, perché alcuni fanno la storia del cinema, un cinefilo che si rispetti non disdegna una visione soltanto perché popolare. E poi c'è il film di quel venezuelano, aspetta no era un thailandese, comunque va visto as-so-lu-ta-men-te, con ogni probabilità una visione punitiva come poche, ma vuoi mettere, ha vinto il Leone d'Oro...

In fondo siamo tutti vittime del carpe diem, la più grande impostura mai escogitata dall'uomo per rendersi infelice, un virus cognitivo che riesce nella duplice impresa di rendere più amari i rimpianti per le esperienze non vissute, e allo stesso tempo guastare irreparabilmente il piacere del presente con l'idea fasulla di un obbligo da adempiere. Niente di meglio di un bel "cogli l'attimo" per rovinare la giornata a qualcuno. L'ideale sarebbe riuscire ad applicare ai film il consiglio di Pennac: andate al cinema non per passare il tempo o per istruirvi, ma per vivere.

mercoledì 23 novembre 2016

Elle (Paul Verhoeven 2016)


Quando nel 1997 uscì nelle sale Funny games, che valse a Michael Haneke aspre critiche per quello che venne giudicato un uso strumentale e voyeuristico della violenza, il regista dichiarò in propria difesa che si trattava di un gioco con lo spettatore, chiamato ad esercitare la sua libertà di non guardare: l'intento era dunque quello di provocarlo, urtare la sua sensibilità, titillare il suo desiderio di continuare, nonostante tutto, a godersi lo spettacolo. Coloro che si alzano dalla poltrona non hanno bisogno del mio film, dichiarò il regista, mentre chi resta fino alla fine ha bisogno di essere torturato per tutti i 110 minuti della sua durata. È da ipocriti, argomentò Haneke, accettare le regole del gioco per poi protestare una volta che questo è terminato.

Se Funny games si configurava come un'aggressione a mano armata alla sensibilità dello spettatore, che poteva reagire con il rifiuto o la connivenza, Elle assomiglia più a una molestia alla quale non sappiamo bene se opporre resistenza. A giudicare dalla reazione del pubblico, un cinema Massimo stipatissimo in occasione della 34esima edizione del Torino Film Festival, direi che la meglio l'ha avuta il regista Paul Verhoeven.

giovedì 17 novembre 2016

Knight of cups (Terrence Malick 2015)


Ero impaziente di vedere questo Knight of cups, sia perché un film di Malick comunque la si metta è sempre rilevante, sia perché ero curioso di vedere se fosse riuscito ad affrancarsi dal fastidiosissimo To the wonder, che all'epoca interpretai come una solenne quanto fiacca scimmiottatura del precedente e forse inarrivabile The tree of life. Quello che mi sono trovato davanti è un film in equilibrio precario tra prevedibilità e novità, ripetizione di forme già viste e sperimentazione di nuovi percorsi, banalità e profondità.

Malick ci racconta la storia di uno sceneggiatore di mezza età (un disorientatissimo Christian Bale) che cerca di lasciarsi alle spalle l'universo mondano in cui ha sempre sguazzato per recuperare una dimensione più autentica dell'esistenza. Reduce da un matrimonio fallito e ora impegnato nell'ennesima relazione che non riesce a far decollare, si sforza di ricomporre l'intricato puzzle della sua vita, che gli appare come una sequenza insensata e caotica di avvenimenti, puntellata da una traballante figura paterna e dalla presenza intermittente di un fratello irrequieto e instabile. In estrema sintesi è questa la trama, eppure è come se non avessimo detto nulla, perché raccontare quello che succede in Knight of cups è un po' come cercare di descrivere una casa di Gaudì parlando dei pilastri che la sorreggono.

sabato 12 novembre 2016

Io, Daniel Blake (Ken Loach 2016)


"Altro che film, questa è la vita vera..." è il commento di un signore seduto dietro di me. Forse nessun regista come Ken Loach è capace di suscitare una reazione emotiva così prepotentemente irrazionale nello spettatore. Ciò che vediamo sullo schermo non è semplicemente un film, ma un pezzetto di vita rubato ai suburbi anneriti delle città inglesi - o almeno questa è l'impressione. Certo, siamo consapevoli che protagonisti e storia possono essere frutto di invenzione, ma le dinamiche appaiono sempre molto ben radicate nel contesto sociale ed economico in cui i personaggi si muovono, contesto in cui natura e necessità solitamente sembrano avere la meglio sui disegni capricciosi del caso. Dei personaggi di Loach non avremo mai occasione di chiederci, come Nanni Moretti, "ma queste sigarette, questi vestiti, come se li sono procurati?" perché fin dal principio risulta molto chiaro di che cosa campano, che cosa mangiano, che tipo di contratto di locazione hanno stipulato, e anzi tutti questi elementi costituiscono il centro stesso della storia.

Questa storia parla di Daniel, carpentiere vedovo alle soglie della terza età costretto ad un periodo di riposo forzato dai cantieri a causa di un infarto. Ma è solo l'inizio dei suoi problemi: la richiesta del sussidio di invalidità approvata dal medico curante viene respinta dall'assicurazione sanitaria, che invece ritiene Daniel abile al lavoro (una situazione per certi versi simile a quella di Sonia Bonet ne Il mostro dalle mille teste). Gli si aprono due possibilità ugualmente indesiderabili: fare ricorso contro l'assicurazione, con tempi lunghissimi ed esito incerto, oppure richiedere allo Stato il sussidio di disoccupazione, con l'implicita ammissione di idoneità al lavoro e il conseguente obbligo di ricerca attiva e verificabile di un impiego che non è in condizioni di svolgere.

martedì 8 novembre 2016

La ragazza senza nome (fratelli Dardenne 2016)


Almeno due luoghi comuni cinematografici sono all'opera in quest'ultimo film del prolifico duo di cineasti belgi.

Il primo trope è quello dell'umanità dimenticata. Jenny, medico generico in uno studio alla periferia di Liegi, molto stimata dai suoi pazienti per la sua infaticabile dedizione alla professione, ha già imparato nonostante la giovane età a dominare le sue emozioni in modo che non interferiscano con la carriera e la vita privata. "A loro non interessa nulla della tua stanchezza" è l'insegnamento che impartisce allo stagista Julien dopo essersi raccomandata di non aprire a nessuno la porta dell'ambulatorio al di fuori dell'orario di visita. Quando però una ragazza di colore verrà trovata senza vita a pochi passi dallo studio, Jenny vedrà incrinarsi la sua fredda imperturbabilità, mentre Julien, ormai deciso ad abbandonare la carriera in medicina forse anche a causa degli scarsi incoraggiamenti ricevuti durante lo stage, diventerà per Jenny un rimprovero in carne ed ossa alla sua rigida filosofia professionale.

sabato 5 novembre 2016

Un mostro dalle mille teste (Rodrigo Plá 2015)


La proiezione al cinema Greenwich di Torino è stata presentata dal regista, che ha citato il poco conosciuto thriller The conspiracy del regista canadese Christopher MacBride come fonte di ispirazione per Un monstruo de mil cabezas. Nonostante gli sforzi di Plá di mantenere la conversazione ad un livello superficiale per evitare di guastare la visione, l'interprete dalla lingua spagnola presente in sala era chiaramente di un altro avviso. Oltre a rivelare dettagli della trama e a fornire una personale interpretazione della storia, non si è fatto alcuno scrupolo a travisare a più riprese le parole del regista con aggiunte e commenti non richiesti, forse nella convinzione che il motto "tradurre è tradire" costituisse più un alibi per il traduttore piuttosto che la constatazione di un'ineliminabile imperfezione.

Plá costruisce pazientemente il dramma di Sonia, una donna messicana che si vede rifiutare dalla sua assicurazione sanitaria il rimborso di una costosissima terapia lenitiva del dolore per il marito malato terminale di cancro, nonostante il riconoscimento dell'efficacia di questa terapia da parte della medicina ufficiale. Le ristrettezze economiche e la disperazione portano Sonia ad addentrarsi, armata, nel mondo clientelare e corrotto delle assicurazioni, un mondo dove la firma della persona giusta può fare la differenza tra una dipartita dignitosa e una morte atroce.