«Quando ti guardo io non lo so, che cosa vedo. Tu non sei una donna, tu sei... una chimera.»
Diversi anni fa al Salone del Libro di Torino mi imbattei in un curioso progetto intitolato Biblioteca Vivente. A ogni partecipante veniva chiesto di consultare una sorta di schedario dove figuravano etichette come Zingaro, Gay, Handicappato e altre categorie umane oggetto di pregiudizi diffusi; una volta scelto il "titolo" seguiva un incontro a tu per tu con un libro vivente, cioè un rappresentante in carne e ossa della categoria prescelta. Lo scopo chiaramente era quello di sensibilizzare le persone sul tema della discriminazione, invitandole a riflettere sulla distanza che spesso separa la realtà dalle opinioni che ci formiamo su di essa.
Partecipai anch'io al progetto. Ricordo che la mia scelta cadde sulla categoria Transessuale, sicuramente perché tra tutte quelle esposte era quella sulla quale mi sentivo più ignorante. Avevo perfettamente ragione: quando mi accompagnarono nella saletta adibita agli incontri mi trovai davanti un ragazzo mio coetaneo dall'aspetto normalissimo, cosa che – ammetto – mi spiazzò non poco, perché nella mia testa a quella parola associavo immagini ben più folkloristiche. Seguì una conversazione molto piacevole durante la quale realizzai di essere quello più a disagio dei due, mentre l'altro ragazzo, che stava completando la transizione da donna a uomo, mi parlava con la massima naturalezza. Mi raccontò della sensazione, avvertita fin dall'infanzia, di trovarsi nel corpo sbagliato; mi informò di alcuni dettagli riguardanti l'operazione e la terapia ormonale che stava seguendo; mi spiegò, infine, che fin da bambina aveva notato una crescita di peli che certamente era anomala per un corpo femminile, ma perfettamente normale per uno maschile. Tutte cose che per me erano una novità assoluta, perché ciò che la parola "trans" mi aveva evocato fino a quel giorno aveva più che altro a che fare con sordidi appuntamenti notturni negli androni mal illuminati della via Ormea torinese.
Grazie a questa chiacchierata breve ma istruttiva, di cui conservo ancora oggi un ricordo nitido, mi resi conto che il mio errore più grande – al di là di tutta una serie di osservazioni che, ahimè, figurano nel decalogo delle cose più offensive da dire a una persona transgender – non era stato tanto quello di essermi fatto influenzare dall'iconografia popolare sull'argomento, ma quello ben più grave di considerare le persone transessuali alla stregua di esemplari di una specie, portabandiera di una causa, individui la cui principale caratteristica coincideva con l'appartenenza a una ben definita minoranza: dei titoli astratti, insomma, dietro i quali non c'era alcun libro. Chi mi stava di fronte, al contrario, non aveva nessuna voglia di essere considerato un concetto astratto: era Andrea, una persona pura e semplice fatta (come tutti) di desideri, pensieri, interessi, pulsioni, paure. L'identità sessuale rivestiva certamente un ruolo importante, ma non era che una delle tante caratteristiche che andavano a formare la sua personalità, e l'ovvietà di questa conclusione testimoniava in modo esemplare del modo profondamente irrazionale con cui il pregiudizio aveva messo radici dentro di me.
Ma combattere i pregiudizi, mi dissi, non significa soltanto rivedere le proprie convinzioni alla luce dei fatti. Significa anche rinunciare ad essere i protagonisti della conversazione, restituire all'oggetto del nostro discorso il ruolo di soggetto, perché ogni volta che additiamo qualcuno rivendichiamo implicitamente la nostra superiorità, il nostro insindacabile diritto a pronunciare un giudizio. Dopo tutto, conclusi, non è così rilevante quello che noi pensiamo delle persone transessuali o di qualsiasi altra categoria: la nostra opinione è del tutto secondaria rispetto alle istanze e ai diritti di quelle persone, e questo appare particolarmente chiaro se ci sforziamo di guardare le cose dalla loro prospettiva. Mentre noialtri stiamo a pontificare, a deliberare, a discutere su che cos'è giusto e cos'è sbagliato, la vita nel frattempo va avanti, fregandosene beatamente del nostro illustre parere.
In queste ed altre fumose riflessioni mi sono perso durante la proiezione di Una donna fantastica, l'ultimo film di Sebastian Lelio, dove il tema della transessualità, trattato con estrema delicatezza e rispetto, diventa anche un'occasione per misurarsi con le proprie barriere mentali.
Questa è la storia di Marina, cameriera in un bar a Santiago del Cile, appassionata di musica operistica, in transizione da uomo a donna, e convivente con Orlando, un uomo di molti anni più anziano di lei. Quando una notte Orlando viene colpito da un aneurisma cerebrale, Marina si precipita tempestivamente al pronto soccorso, ma non può evitare l'irreparabile. Il peggio, però, deve ancora venire: i parenti di lui, incapaci di accettare che un familiare potesse frequentare una persona transessuale, reagiscono con il rifiuto e la violenza fisica e verbale. A Marina viene intimato di non farsi vedere al funerale e di sgombrare quanto prima l'alloggio di Orlando, mentre nessuno sembra tributarle un minimo di riconoscenza per essere stata presente nel momento della tragedia, ad eccezione forse del cognato Gabo, che tuttavia rimane succube delle dinamiche familiari.
Oltre alla famiglia del defunto compagno è la polizia stessa, nella persona dell'ispettrice Adriana del dipartimento crimini sessuali (interpretata da una tale Amparo Noguera dall'inquietante sguardo felino) a perseguitare Marina con accuse infondate e pregiudiziali. L'ispettrice, infatti, non sembra essere immune da quell'odioso preconcetto secondo cui tra transessualità e prostituzione esisterebbe sempre una relazione di causa-effetto, fantasiosa teoria alla luce della quale la morte di Orlando si spiegherebbe non come una dolorosa vicenda familiare, ma come l'omicidio di un cliente violento per mano di una prostituta. In una scena particolarmente straziante, Marina viene fatta spogliare davanti agli occhi indagatori di Adriana con la motivazione ufficiale di accertare un eventuale abuso, ma il dubbio raggelante che si insinua è che l'ispettrice sia spinta, più che da ragioni professionali, da una curiosità morbosa al limite del voyeurismo.
Marina deve fare anche i conti con una gragnuola di commenti offensivi provenienti da ogni direzione. La frase che apre il post viene pronunciata dall'ex moglie di Orlando, donna di grande cultura, e testimonianza vivente del fatto che la sensibilità non si apprende sui libri, perlomeno non quelli stampati; altri umiliano Marina chiamandola con il nome maschile "Daniel", che per via di lungaggini burocratiche ancora figura sul suo documento d'identità; ma l'epiteto più infamante è quello di "frocio", particolarmente odioso perché oltre all'insulto racchiude in sé tutta l'ignoranza di chi confonde l'orientamento con l'identità sessuale.
Ci sarebbero tutte le premesse per un film melodrammatico e lacrimevole, ma Lelio evita accuratamente di cadere in trappola e confeziona invece un ritratto femminile di straordinaria potenza che, come il bellissimo Gloria del 2013, è anche una storia di resilienza, emancipazione, autodeterminazione. Non è superfluo sottolineare che la protagonista è interpretata dall'attrice Daniela Vega, essa stessa transessuale, e d'altra parte era difficile immaginare che all'interno di un progetto così sensibile alle problematiche del mondo transgender, e dove la fisicità del personaggio principale ha un ruolo così centrale, si potesse operare una scelta diversa. Chi però, come l'ispettrice di polizia, fosse colto dalla curiosità morbosa di sapere se Marina sia già "operata" rimarrà deluso: nella sua infinita saggezza Lelio sceglie di non mostrarcelo, innanzitutto perché non è affar nostro, ma soprattutto perché non sono gli attributi sessuali a definire l'identità di Marina, anzi, è precisamente questa curiosità del tutto inappropriata a dare origine ad ogni pregiudizio.
Meno scontata è la scelta di assegnare alla parola "fantastica" del titolo la doppia connotazione di "eccezionale" e "prodigiosa", inserendo, tra le pieghe del dramma che si sviluppa in superficie, un sottotesto magico che trova piena espressione nella parola "chimera", qui riconsegnata al regno della fantasia cui l'ottusità dell'ex moglie di Orlando l'aveva sottratta. A pensarci bene c'è una parola ancora più calzante per descrivere quell'essere meraviglioso che è Marina: mostro, nel doppio senso di creatura informe (come la vedono gli altri) e quello etimologico di prodigio, rivelazione, miracolo. Da questo punto di vista il film di Lelio non è soltanto uno sconfinato atto d'amore verso chi come Marina si trova ad affrontare una transizione, è anche un'operazione di riscrittura di un mito, ora spogliato di tutte le sue manifestazioni esteriori e arricchito di nuovi, fantastici significati. Perché una transizione – sembra dirci Lelio – è come un confine meraviglioso tra due regni adiacenti ma disgiunti che soltanto ad alcuni esseri eccezionali è dato valicare, un mistero invisibile come l'impalpabile contenuto dell'armadietto 181 della sauna Finlandia, parola più che mai evocativa che non a caso ammette tra le sue accezioni quella di "terra di confine". E così come è inutile chiedersi che cosa mai ci fosse dentro la blue box di Mulholland Drive, è altrettanto inutile, credo, cercare di spiegare quell'enigma che possiede infiniti significati ma ha un solo nome: Marina.
Reminiscenze. La morte non è opportuna, non bussa, non sceglie necessariamente il momento in cui sei circondato dai tuoi consanguinei per venire a farti visita. Il modo imprevedibile in cui una relazione sotterranea può diventare di dominio pubblico per effetto di una tragedia è un tema che si ritrova anche in Domani nella battaglia pensa a me, romanzo dello scrittore spagnolo Javier Marías.
Mulholland Drive. |
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