Chi studia programmazione neurolinguistica sa che esiste un tipo di linguaggio denominato "abilmente vago" che mira a coinvolgere emotivamente l'interlocutore tramite l'utilizzo di parole molto generiche e prive di un reale contenuto. Si tratta di una strategia comunicativa che neutralizza le facoltà critiche di chi ascolta, perché ogni frase è costruita in modo da essere inattaccabile su un piano razionale. Ad esempio l'espressione "bisogna entrare in contatto con se stessi" è abilmente vaga, perché indica la necessità di un percorso senza però specificare nel dettaglio in che cosa consista. Non è rivolta a nessuno in particolare, eppure ciascuno di noi vi si riconoscerà in qualche misura, provvedendo ad adattarla al proprio vissuto e interpolando gli spazi vuoti con ricordi, pensieri, riflessioni personali. Ed è inconfutabile, perché l'idea che esprime è troppo evanescente per poter essere sottoposta a giudizio.
Le applicazioni sono infinite e non si limitano alla comunicazione orale. Se dovessi citare uno scrittore abilmente vago, sceglierei senza esitazione Hermann Hesse: il suo romanzo Il lupo della steppa racconta la crisi di un uomo di mezza età in cui chiunque si può riconoscere, perché il malessere che descrive è troppo indefinito per essere riconducibile ad un preciso stato d'animo, i sintomi troppo variegati per non vibrare occasionalmente all'unisono con le frequenze emotive di chi legge. Chi non si è mai sentito solo, incompreso, estraneo ai propri simili? Se poi ci soffermassimo ad ascoltare i testi delle canzoni che affollano le nostre stazioni radiofoniche, avremo un'ulteriore conferma dell'illimitato potere della vaghezza come tattica comunicativa.
Non c'è motivo di pensare che il cinema debba esserne immune. Accanto ai cosiddetti film "a tesi", che si propongono cioè di avvalorare una teoria, sviluppare una critica, portare avanti un'idea (l'intera produzione di Ken Loach, tanto per fare un esempio) trova sempre più cittadinanza una categoria di film che rifiutano ostinatamente ogni presa di posizione netta, lasciando allo spettatore l'onere di decifrare una moltitudine di messaggi contraddittori o comunque troppo generici per essere sottoposti al vaglio di un giudizio critico. Con un film a tesi si può essere d'accordo o in disaccordo; di un film abilmente vago, invece, per natura refrattario ad ogni interpretazione univoca, si potrebbe discutere all'infinito senza mai arrivare ad una conclusione. Perché un regista dovrebbe avere interesse a realizzare un film del genere? Beh, per lo stesso motivo che spinge certi artisti contemporanei a servirsi della provocazione per promuovere le loro opere: per creare un "caso", far discutere, diventare virali. Non solo: non avere un messaggio preciso da veicolare significa anche disporre di una maggiore libertà creativa. E se disponi di una maggior libertà creativa, puoi permetterti anche di far accomodare una scimmia sul sofà o far saltare un uomo seminudo su una tavola imbandita senza dover dare particolari spiegazioni, un po' come avviene per le installazioni d'arte.
Già dalla scelta del titolo, il regista svedese Ruben Östlund dimostra di sapere esattamente quello che sta facendo. "The square" è il titolo di un'installazione artistica di prossima inaugurazione, uno dei tanti progetti in cui è impegnato Christian, curatore di un importante museo di arte contemporanea di Stoccolma. Lo square in questione, un quadrato quattro metri per quattro di luce fluorescente incastonato tra i sanpietrini di cui è lastricata la piazza antistante l'edificio, viene descritto dall'artista che lo ha realizzato come un "santuario di fiducia e altruismo dove tutti hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri", o qualcosa del genere. La disarmante ingenuità del messaggio non passa inosservata ai creativi dell'agenzia pubblicitaria incaricata di dare visibilità al progetto: presentato al pubblico in questa confezione innocua, sostengono, il progetto non ha nessuna speranza di decollare. La loro proposta di marketing è di girare e diffondere su youtube un video dai contenuti fortemente provocatori, allo scopo di generare una redditizia ondata di polemiche intorno all'evento. Christian non è molto convinto di questa strategia, che giudica troppo aggressiva: per lui, il rispetto dell'opera è prioritario rispetto al successo commerciale e mediatico. Tuttavia, un po' per conformismo all'entusiasmo dei colleghi, un po' per distrazione, finisce per dare carta bianca ai creativi senza quasi rendersene conto.
Il motivo della distrazione di Christian è da ricercare in uno spiacevole episodio di cui è testimone sulla strada verso l'ufficio: inseguita da un uomo fuori di sé dalla rabbia, una donna chiede aiuto ai passanti indifferenti. Finalmente uno sconosciuto interviene in sua difesa coinvolgendo anche Christian, che dopo qualche esitazione vince la paura e si fa avanti in prima persona. Tutto sembra finire per il meglio, senonché una volta arrivato in ufficio Christian si rende conto di essere stato vittima di un furto. Insieme al suo collega Michael riesce a rintracciare lo smartphone rubato tramite il segnale GPS, ma il piano che metterà in atto per riavere indietro la sua roba avrà conseguenze imprevedibili. Nel frattempo viene diffuso in rete il video di una bambina che esplode su un campo minato quattro metri per quattro...
Terminata la proiezione di The square, c'è una domanda sulla bocca di tutti: che cosa rappresenta il quadrato? Le interpretazioni fioccano. Secondo l'abstract fornito dagli organizzatori della mostra, il suo significato è politico: è una zona franca dove ogni individuo ha diritto a ricevere soccorso quando ne ha bisogno, ed è obbligato a prestarlo quando ad essere in difficoltà è un suo simile. Se chiedessimo ai creativi, ci risponderebbero che non è importante il quadrato in sé, ma il modo in cui viene venduto. Per i tecnici che lo installano, non è altro che una serpentina elettrica lunga sedici metri da incassare nel pavimento. Per Christian, è soprattutto un pattern che si ripropone a più riprese nella sua vita: oltre a rappresentare una sfida professionale, è nello ristretto spazio di un quadrato che si svolge l'episodio di violenza di cui è testimone, e che avrà conseguenze irreversibili sulla sua vita privata e professionale; è anche il perimetro del suo appartamento, un privato santuario di cui è unico sacerdote, la cui integrità è disposto a difendere anche a costo della violenza; è, infine, il quadrato del letto matrimoniale dove coinvolge le donne nei suoi giochi di potere, roccaforte del suo ego smisurato. Per Ruben Östlund, quello meno interessato di tutti a fornire un'interpretazione del polisemico poligono, è un'installazione artistica fittizia che si fa opera d'arte reale.
Nel quadrato, ciascuno è libero di proiettare i significati che preferisce. Personalmente ci vedo una metafora della cattiva coscienza di un popolo, quello svedese, apparentemente inclusivo e accogliente, ma di fatto ostile e refrattario all'integrazione. Ci vedo la ristrettezza mentale di chi è disposto a fare l'elemosina soltanto a patto di ricevere in cambio umiltà ed eterna gratitudine: bellissima a tal proposito la scena ambientata nel 7-Eleven in cui Christian offre una "chicken ciabatta" a una zingara, ma si rifiuta di ordinarla senza cipolla («toglitela tu, la cipolla!»). Il quadrato, per me, rappresenta anche la vacuità di certa arte contemporanea, volutamente fumosa e inaccessibile, spesso incomprensibile anche agli addetti ai lavori. Tuttavia, sebbene queste tematiche trovino certamente spazio all'interno del film, esse non si concretizzano mai in una tesi organica – men che meno in una teoria matematica, come potrebbe lasciar supporre la figura geometrica in questione, regolare per antonomasia. Argomentare e disquisire sui possibili significati, insomma, è appannaggio esclusivo dello spettatore: anche noi, come capita a Christian quando viene messo alle strette da una punzecchiante intervistatrice, dobbiamo appellarci alla fantasia più che alla logica se vogliamo soddisfare la nostra sete di senso. Dobbiamo però anche fare i conti col fatto che alcuni fatti salienti si svolgono fuori campo, lasciando il dubbio su che cosa sia effettivamente accaduto e gettando un'ombra inquietante sul personaggio di Christian, a tratti più simile a un assassino che al curatore di un museo. L'importante è mantenere la consapevolezza che tra le mani "non abbiamo nulla", e che per quanto possiamo scavare, tutto ciò che ne caveremo non sarà altro che un mucchietto di ghiaia fra altri mille.
"You have nothing". |
Östlund costruisce così un film abilmente vago che è consapevole di non essere all'altezza degli interrogativi che suscita e neppure ambisce ad esserlo, anzi, si autodenuncia mettendo in scena la molteplicità di significati dell'opera da cui trae il nome, ed eleggendo a personaggio principale un uomo che fa dell'evasione la strategia principe con cui affrontare la vita. Non meno sfuggente del suo protagonista, The square è molte cose insieme – una commedia brillante dai toni grotteschi a tratti inaspettatamente crudele, una divertita incursione nel mondo surreale dell'arte contemporanea, una critica tagliente all'ipocrisia della società svedese, ma anche una riflessione disincantata sull'eterno dissidio tra natura e cultura, e sulla fragilità di quella persistente illusione che vorrebbe fossimo noi a dominare l'istinto, quando alla fine è sempre l'istinto ad avere la meglio sulle nostre sovrastrutture. Ma soprattutto, è una raffinata provocazione pensata per destare l'interesse del grande pubblico e far discutere i critici, e a giudicare dalla Palma d'oro che si è conquistato a Cannes, direi che ha funzionato perfettamente.
Reminiscenze. Ne La donna senza testa della regista argentina Lucrecia Martel l'evento più importante (che curiosamente coincide con un incidente stradale, proprio come in The square) si svolge fuori campo e non viene mai chiarito, anzi, potrebbe non esistere alcuna spiegazione plausibile. Il film di Östlund non è così drastico, ma la scelta dell'indeterminatezza viene comunque portata avanti fino alla fine.
Reminiscenze. Ne La donna senza testa della regista argentina Lucrecia Martel l'evento più importante (che curiosamente coincide con un incidente stradale, proprio come in The square) si svolge fuori campo e non viene mai chiarito, anzi, potrebbe non esistere alcuna spiegazione plausibile. Il film di Östlund non è così drastico, ma la scelta dell'indeterminatezza viene comunque portata avanti fino alla fine.
The square ha anche molti punti di contatto con Niente da nascondere di Michael Haneke; in entrambi i film la cattiva coscienza dei padri alimenta il rancore della generazione successiva, ed è a questa generazione che è dedicata l'ultima inquadratura.
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