sabato 17 dicembre 2016

Ikarie XB-1 (Jindřich Polák 1963)


Quando ho deciso di andare a vedere questo film cecoslovacco in bianco e nero di fantascienza del 1963 (ordinate come preferite i complementi di specificazione) presentato quest'anno nella sua versione restaurata al festival di Cannes e poi riproposto al Torino Film Festival, sapevo già che non sarei riuscito a reclutare molti compagni di visione. Forse dovrei dire che in fondo capisco benissimo il loro punto di vista, ma la verità è che non lo capisco per niente, perché alla fine quello che cerco nel cinema è proprio l'incognita, l'imprevisto, l'opportunità di trovarmi a faccia a faccia con qualcosa che è lontano anni luce dal mio modo di vedere e di pensare. Non c'è niente di più avvilente per me del constatare che un film o un libro o un fumetto è esattamente come me lo aspettavo, che l'autore si è fatto in quattro per venire incontro al mio gusto. Brrr.

Non sono rimasto deluso. Ambientato duecento anni nel futuro (è sempre bene tenersi larghi per evitare smentite) Ikarie XB-1 è la storia di una missione spaziale con lo scopo (non originalissimo nel 2016, molto di più nel 1963) di cercare forme di vita sul Pianeta Bianco, un satellite della stella Alpha Centauri (ho controllato: la stella esiste veramente, il pianeta no). Il film si apre con un flashforward in cui uno dei passeggeri si aggira per i corridoi dell'astronave in preda a un delirio di cui capiremo solo in seguito l'origine. Questa scena, insieme al titolo di chiara ispirazione mitologica, proietta un'ombra di incertezza sull'esito della missione, nata come spesso accade sotto i migliori auspici e all'insegna del più ingenuo positivismo.

A dispetto del carattere scientifico della spedizione, la prima parte del viaggio assomiglia più a una crociera che a un viaggio nello spazio. Un membro dell'equipaggio si è portato dietro la moglie (a quanto pare le regole di partecipazione sono un po' lasse) un altro strimpella qualche nota al pianoforte ("mi porto via solo l'indispensabile") qualcuno medita su ciò che sta lasciando rigirandosi tra le mani un piccolo ciottolo, e c'è perfino chi improvvisa serate romantiche con tanto di fiori semi-artificiali. Insomma, ciascuno a suo modo cerca di instaurare una specie di routine per compensare il distacco dalla Terra e dagli affetti che si è lasciato alle spalle. D'altra parte di tempo per cazzeggiare ne hanno parecchio, visto che rotta e manovre sono governate da una specie di occhio sintetico che non mi stupirei avesse ispirato a Kubrick il robot senziente HAL 9000 di 2001 Odissea nello spazio (che uscirà 5 anni dopo). Quanto siamo lontani dalla ciurma di mercenari spaziali della Nostromo di Alien!

Se è vero che abbondano le conversazioni da salotto, scarseggiano invece le comunicazioni tecniche a cui tanta fantascienza contemporanea ci ha abituato. Nel futuro astratto di Polák le unità di misura non esistono (la distanza è di 309, l'angolo di 17) i numeri naturali sono sufficienti per esprimere le distanze fra le galassie e i simboli zodiacali hanno sostituito le mappe stellari. L'elegante simmetria degli arredi, tra cui spiccano delle sinuose sedie che ricordano le poltroncine di velluto di 2001, si intona in modo impeccabile con le maniere raffinate dei passeggeri, perfettamente a loro agio in quello che sembra più un museo di arte moderna che una navicella spaziale.

Nessuna di queste stravaganze però ci prepara a quella che secondo me è la scena più assurda e più bella del film: come se il concetto di "sabato sera" avesse ancora un significato in un contesto dove giorni e notti sono indistinguibili, i passeggeri si abbandonano a una danza surreale sulle note di un cacofonico valzer che una persona vagamente equilibrata non si avventurerebbe a ballare neanche sotto effetto di acido, ma che per questo manipolo di intellettuali cecoslovacchi possiede un fascino misterioso e irresistibile. Segue un secondo ballo altrettanto folle, questa volta un'improbabile bossanova felina al cui ritmo ciascuno si scatena senza ritegno (per avere un'idea delle sonorità, si pensi alle melodie oniriche composte da Nino Rota per Giulietta degli spiriti).

Ma è l'ultimo momento di spensieratezza: le danze vengono interrotte da una sirena d'allarme che annuncia il ritrovamento di un relitto spaziale. Si rivelerà essere di origine terrestre, proveniente dal 1987 e carico di ordigni atomici, inquietante simbolo del XX secolo. L'Ikarie deve poi vedersela con l'influsso di una misteriosa dark star che, come il pianeta Melancholia dell'omonimo film di Lars von Trier, diffonde depressione e nichilismo fra l'equipaggio, trasformando così il viaggio alla scoperta del Pianeta Bianco in un'estenuante lotta contro l'inerzia e la disperazione (c'è qui forse qualche eco de La linea d'ombra). Dal punto di vista tecnico, Polák ricorre abbastanza spesso all'uso dell'inquadratura inclinata o Dutch angle, che restituisce efficacemente l'idea di sconfinamento nell'irrazionalità che domina questa parte.

Ikarie XB-1 fa parte di quel filone di film di fantascienza che interpreta il viaggio nello spazio più come esperienza mentale che spaziale - più immersione nelle profondità della psiche umana che avventura nel cosmo. Inevitabile ancora un volta il confronto con 2001, dove la destinazione ultima di un viaggio psichedelico ai confini dell'universo è intimamente legata ai misteri di nascita e morte. Impossibile poi non pensare al metafisico Solaris di Andrei Tarkovsky (anche questo posteriore, è del 1972) dove l'influsso di una stella nefasta ha il potere di materializzare i demoni che dimorano nel cervello dei protagonisti. Alla base di questa "fantascienza introspettiva" sembra esserci la convinzione che l'uomo sia in fin dei conti il più grande mistero per se stesso, oltre alla consapevolezza che, anche nell'immensità siderale, non possiamo fare a meno di trascinarci dietro l'immane zavorra delle nostre miserie. Come scrisse Seneca a Lucilio, "perché ti stupisci che viaggiare non ti abbia giovato, visto che ti sei portato dietro te stesso?"

Il pelo nell'uovo. Gli astronauti incaricati di ispezionare il relitto spaziale calzano buffe scarpe con suole lampeggianti, profezia ben più strabiliante delle Nike autoallaccianti di Ritorno al futuro II.

Per il vostro piacere intellettuale e filosofico, ecco a voi la scena del ballo. Purtroppo non è sottotitolata, ma ad ogni modo non sono le parole il suo punto di forza.

1 commento:

  1. anch'io l'ho visto, un paio d'anni fa.
    un film che merita molto, meno male che che i film non si giudicano dal numero di spettatori

    http://markx7.blogspot.it/2014/09/ikarie-xb-1-jindrich-polak.html

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