mercoledì 20 dicembre 2017

Heart of a dog (Laurie Anderson, 2015)


Qualche anno fa, la famiglia che viveva nell'appartamento a fianco al mio decise di trasferirsi. A due settimane abbondanti dal trasloco, la padrona di casa mi chiamò nell'alloggio vuoto e mi mostrò una boccia di vetro: attraverso le pareti ormai coperte di muschio si intravvedevano due paia di occhietti imploranti. Decisi che mi sarei occupato dei due pesci rossi abbandonati, anche se non avevo la più vaga idea di come prendermi cura di loro, perché nella mia vita non avevo mai avuto altro che pennuti.

Grazie a Crik e Crok ho imparato molte cose. Tanto per cominciare ho avuto modo di constatare che quel luogo comune secondo cui i pesci non hanno memoria è soltanto un'immane sciocchezza: se all'inizio della convivenza i due pesciolini si erano dimostrati paurosi e diffidenti, con il passare del tempo avevano imparato a riconoscere la mia persona e a fidarsi della mano che ogni giorno distribuiva sulla superficie dell'acqua minuscole palline di spirulina. Quando avvicinavo la faccia alla parete trasparente dell'acquario mi nuotavano incontro scondinzolanti, mentre quando era un estraneo a farlo si rifugiavano con un guizzo fulmineo dietro le alghe artificiali che ricoprivano il fondo della vaschetta. Una mattina mi svegliarono dei colpetti ben assestati sulle pareti di vetro del contenitore, segno inequivocabile che qualcuno stava reclamando la consueta dose di cibo: imparai così che i pesci sono perfino capaci di stabilire una primordiale forma di dialogo con gli esseri umani, in barba alla separazione dei regni voluta dall'ordine naturale. Mi capita spesso di incontrare sedicenti amanti degli animali che rivendicano la superiorità del cane e del gatto come animali da compagnia, o che trattano i pesci alla stregua di un ornamento da salotto: a queste persone va il mio più profondo compatimento.


Come mi aveva colto di sorpresa l'arrivo dei miei due piccoli ospiti, allo stesso modo la loro morte mi raggiunse del tutto impreparato. Fu Crik il primo ad andarsene: tutto cominciò con dei problemi alla vescica natatoria. L'addome di Crik si gonfiò, gli occhi si dipinsero di un terrore cieco, e i movimenti del suo corpicino cominciarono a seguire imprevedibili traiettorie browniane, finché, ormai totalmente incurvato su un fianco, non si abbandonò a una lenta agonia sul fondo della vaschetta. Il suo compagno Crok, compresa perfettamente la gravità della situazione, andò in allarme, prese a girargli intorno e a sollevarlo così come si cerca di rialzare da terra una persona moribonda. Telefonai a tutti i veterinari e i negozi di acquari della città, ma l'unica risposta che ottenni era quella che meno ero disposto ad ascoltare: ormai era solo questione di tempo. Qualcuno mi diede un consiglio che sulle prime mi fece orrore: vista l'irrevocabilità della situazione, non sarebbe stato meglio abbreviare le sofferenze della bestiola tranciandogli di netto la testa con un coltello?

In un momento di maggiore lucidità mi dissi che quella era la cosa più sensata da fare. Il povero Crik stava soffrendo moltissimo: bisognava prendere una decisione, e in fretta. Dopo tutto ero sempre stato un sostenitore dell'eutanasia, si trattava semplicemente di mettere in pratica le idee che avevo spesso difeso davanti ai paladini della sacralità della vita. Peccato però che tutte le conclusioni cui credevo di essere arrivato a proposito della dolce morte si infrangessero miseramente di fronte allo spettacolo che si svolgeva davanti ai miei occhi: Crik stava morendo, eppure il suo corpicino lottava ancora, e sembrava non volerne proprio sapere di rinunciare a quegli ultimi disperati istanti di vita. Dovevo anche fare i conti con l'egoismo del sopravvissuto: ogni secondo in più trascorso su questa terra con Crik vivo al mio fianco, per quanto inquinato da un carico immane di sofferenza, mi sembrava comunque prezioso, inestimabile. Cosa ne pensasse lui, non era dato sapere. Spettava dunque a me stabilire il momento esatto in cui quel cuore avrebbe smesso di battere? E se insieme alla testa avessi reciso anche l'ultima effimera speranza di guarigione? Furono, per farla breve, tre lunghissimi giorni durante i quali non seppi far altro che pregare la morte di sbrigarsi: il coltello non volli, o non fui capace di usarlo. Ad oggi non so se quella sia stata la scelta giusta, né se si sia trattato di una vera e propria scelta o di semplice codardia, e il ricordo di Crik che si contorce sul fondo della vaschetta mi tormenta ancora.


Non ho potuto evitare di pensare a Crik mentre guardavo Heart of a dog, un documentario autobiografico firmato Laurie Anderson, artista eclettica con alle spalle una carriera pluridecennale come musicista, filmmaker e performance artist. Prendendo come punto di partenza ciò che aveva di più vicino, ossia il suo cane Lolabelle, la Anderson si lascia andare a una sorta di meditazione sulla memoria e sulla morte composta da piccoli istanti quotidiani, aforismi e considerazioni personali, per poi allargare il discorso a temi più generali come il terrorismo, l'invasione della privacy e, appunto, l'eutanasia. Ricordi, sogni, riflessioni convergono per effetto di una libera associazione di idee, come in una seduta di psicoterapia; così una passeggiata per le colline californiane in compagnia di Lolabelle diventa un'occasione per riflettere sul senso di minaccia permanente con cui convivono gli americani dopo l'undici settembre, mentre il racconto di un incidente occorso alla regista molti anni prima e della lunga permanenza in ospedale che ne seguì dà luogo a una riflessione sul modo ingannevole in cui la nostra mente organizza i ricordi. La Anderson riesce perfino a individuare degli inaspettati (e forse non del tutto pertinenti) punti di contatto tra il pensiero del filosofo Wittgenstein e il famoso slogan "if you know something, say something" diffuso dal dipartimento della sicurezza interna degli Stati Uniti in seguito all'attacco alle Torri Gemelle, in uno dei tanti voli pindarici di cui è costellato questo film.


I fanatici del pensiero logico troveranno in Heart of a dog più di un motivo per lamentarsi, ma il consiglio in questo caso è quello di mettere da parte ogni giudizio e lasciar vagare a nostra volta il pensiero sull'onda delle suggestioni generate dalla convergenza di parole, immagini e musica. Mille volte abbiamo visto il lato glamour di Manhattan sul grande schermo, ma pochi ci hanno raccontato della polvere che per mesi ha continuato a depositarsi su ogni cosa dopo l'undici settembre, e nessuno prima d'ora ci ha portato a spasso al guinzaglio (!) per le sue strade, offrendoci l'opportunità di fare la conoscenza, oltre che di altri illustri rappresentanti della specie canina, di persone normali che nel cuore di New York conducono una vita altrettanto normale. All'occhio della Anderson non sfuggono però alcuni importanti dettagli che denotano un cambiamento in atto dietro la tranquillità apparente: sotto la sua finestra, spiega, è un viavai continuo di furgoni che trasportano banche dati contenenti milioni di informazioni sensibili sulla vita dei cittadini destinate ai vari data center sparsi nel territorio americano, segno che all'innalzamento del livello di allerta terroristica è corrisposta una drastica diminuzione della libertà personale. Lo sa bene Lolabelle, che dal giorno in cui un falco ha cercato di portarsela via non ha più smesso di scrutare il cielo.

Capita, con certi film, di avere l'impressione di assistere da dietro un vetro a una festa cui non siamo stati invitati; guardare Heart of a dog invece è come essere accolti a braccia aperte da qualcuno che non conosciamo, ma che è disposto a condividere una parte molto intima di sé senza vergogna né volontà di autocelebrazione, e soprattutto senza farci sentire degli estranei, anzi, se mai si è potuto definire un regista "ospitale" questo è sicuramente il caso di Laurie Anderson. L'autrice si è perfino presa la briga di doppiare in italiano la voce narrante che accompagna l'intero film, una scelta che in principio può sconcertare (la pronuncia è tutt'altro che perfetta) ma che si rivela essenziale per mantenere intatta quell'atmosfera di intimità e calore che le permette di coniugare momenti di pura felicità, come quando Lolabelle impara a suonare la tastiera arrivando addirittura a produrre un disco di canzoni natalizie che non è "niente male" (guardare per credere), a momenti più meditativi, quasi confessionali, legati alla morte della madre e della stessa Lolabelle. Le immagini non sono meno importanti della voce che le commenta. A volte l'obbiettivo punta dritto verso le nuvole, come gli occhi di un viandante che cammini con il naso all'insù, innamorato dell'azzurro del cielo, degli uccelli che lo abitano, delle geometrie dei rami che lo interrompono. Lo schermo è anche vetro solcato da gocce di pioggia, spesso sovrapposto come un filtro a immagini di repertorio, filmini familiari, momenti estemporanei catturati durante le passeggiate nella neve o sulle colline della California, il tutto scandito da una colonna sonora frastagliata che è opera della stessa Anderson.


Se da questa mescolanza di idee e immagini emerge una visione originale e personalissima della vita e dell'arte, si riconosce però altrettanto bene l'influenza di altri artisti contemporanei che in tempi recenti si sono cimentati con la forma del documentario e del cine-saggio. Soltanto l'anno prima, nel 2014, usciva nelle sale Adieu au langage dell'ottuagenario gigante del cinema mondiale Jean-Luc Godard, film sperimentale in 3D parzialmente autobiografico in cui spiccava la figura di Roxy, il cane del regista. Certe inquadrature di Heart of a dog catturate dall'interno dell'abitacolo dell'auto mentre fuori imperversa una fitta nevicata sembrano prese direttamente dal film di Godard, così come godardiano è il gusto per l'aforisma, anche se la Anderson ne fa lo strumento di un percorso interiore più che intellettuale e artistico. L'analogia diventa ancora più evidente se si pensa che entrambi i registi cercano di farci vedere il mondo attraverso gli occhi del loro amato quadrupede mentre si interrogano sulla natura e sulle possibilità del linguaggio, pur giungendo a conclusioni pressoché opposte (il lavoro della Anderson non è certo un addio al linguaggio, anzi, non avrebbe senso senza il suono della sua voce). Quando però Heart of a dog si fa espressione dell'inquietudine di chi sa di essere costantemente sorvegliato da un governo disposto a oltrepassare ogni limite imposto dalla legge pur di assicurare un'illusoria sicurezza ai suoi cittadini, allora è chiaro il riferimento alla vicenda Snowden e in particolare al documentario Citizenfour della regista americana Laura Poitras, anche questo uscito nel 2014.

Il modo in cui la Anderson riesce a condensare attualità, sperimentalismo, spiritualità e vicissitudini personali in poco più di un'ora è uno degli aspetti più affascinanti di Heart of a dog, e anche uno dei motivi per cui la definizione di documentario non è che una comoda forzatura. Personalmente ho trovato devastante il racconto della morte di Lolabelle, ma non è necessario aver vissuto con un animale per capire e apprezzare ciò che la Anderson vuole comunicarci. E per nulla al mondo mi lascerei sfuggire l'occasione di ascoltare O Tannenbaum in versione canina.

Adieu au langage.

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