venerdì 3 marzo 2017

Schegge di memoria #1: Beckett, Scorsese e il mostro che vive nello specchio

Buster Keaton incontra il suo peggior nemico in Film.
Cosa succede quando uno dei più grandi intellettuali e drammaturghi del Novecento decide di avventurarsi fuori dal suo elemento naturale per una fugace incursione nella settima arte? La risposta è un singolare cortometraggio in bianco e nero del 1965 diretto dal regista teatrale Alan Schneider, interpretato da un Buster Keaton a fine carriera (morì l'anno successivo) e scaturito dalla mente tormentata e beffarda di Samuel Beckett, che ne scrisse la sceneggiatura. Il titolo non lascia dubbi sulla natura concettuale dell'opera: Film è una riflessione in immagini sul medium stesso da cui è veicolata, sulla natura profondamente violenta dello sguardo e sull'impossibilità di spegnere l'autocoscienza, vera dannazione dell'uomo.

È la storia di un uomo inseguito da qualcuno che non vediamo perché si nasconde dietro la macchina da presa, o piuttosto perché è la macchina da presa. Credendo di potergli sfuggire l'uomo si asserraglia all'interno di una stanza, ma si accorge troppo tardi di essersi messo in trappola da solo: voltare le spalle al nemico diventa sempre più difficile tra le quattro pareti disadorne del minuscolo monolocale, dove perfino gli oggetti inanimati e la sua stessa immagine riflessa nello specchio sembrano osservarlo con occhio torvo. Al termine di una fuga estenuante l'uomo non può evitare di incrociare lo sguardo del suo persecutore, una persona che conosce molto bene: lui stesso.

Al termine della visione non si sa bene che cosa pensare. Il valore documentario di questi 22 minuti di pellicola è indubbio, viste le personalità coinvolte nel progetto, ma il risultato artistico è piuttosto modesto. Su carta la storia doveva apparire complessa e ricca di sfaccettature, ma la resa su schermo espone l'ovvio simbolismo e la fragilità della trama. Un poster affisso al muro raffigurante un dio sumero è un chiaro riferimento alla sfera del divino, la raccolta di fotografie che il protagonista riduce in mille pezzi rappresentano il passato di cui vuole disfarsi, il misterioso persecutore è lo Sguardo dell'Altro, e così via. Le implicazioni filosofiche sono potenzialmente infinite, ma spetta a noi articolarle.


Keaton passa la maggior parte di questi 22 minuti a strisciare lungo i muri e cercare riparo dagli sguardi di cui viene fatto oggetto, compreso il nostro. È la sua gestualità magnetica a sorreggere l'intera impresa, instillando energia in una sceneggiatura cerebrale e strutturata come una bomba a orologeria, ma neppure Keaton può risollevare l'inerzia di certi passaggi: la scena in cui tenta di disfarsi di un gattino e di un cagnolino, breve sipario comico che ammicca allo humor privo di sofisticazioni del cinema delle origini, scivola rapidamente dalla comicità al tedio. Come siano riusciti a convincere una star del cinema muto a rinunciare quasi completamente al suo principale mezzo espressivo, la mimica facciale, rimane l'aspetto più affascinante di tutta la vicenda; vendicherà la categoria il celebre mimo Marcel Marceau una decina di anni più tardi, pronunciando l'unica riga di dialogo del film Silent Movie di Mel Brooks: «NO!»

Ho avuto la fortuna di vedere Film nella gloriosa sala 3 del Cinema Massimo grazie al prezioso lavoro di restauro operato del regista americano Ross Lipman in collaborazione con l'UCLA Film and Television Archive, finanziato tra gli altri dalla Film Foundation di Martin Scorsese (sul quale torneremo a breve). Lipman, presente in sala, ha introdotto non solo la versione restaurata di Film ma anche la proiezione di Notfilm, un cine-saggio di ampio respiro da lui concepito e diretto che copre diversi aspetti della produzione di Film: le tribolate negoziazioni con i produttori, il casting dell'attore protagonista (la parte fu proposta anche a Charlie Chaplin, che declinò l'offerta) la ricerca della location per l'unica scena in esterni (Beckett pretendeva una strada costeggiata da un muro che fosse particolare e allo stesso tempo reale, richiesta che nessuno fu in grado di esaudire all'infuori di lui stesso) la scelta di applicare un filtro all'obbiettivo per differenziare le soggettive del protagonista (identificato nella sceneggiatura da una O di "object") dal punto di vista del suo inseguitore (contrassegnato da una E di Eye, occhio, omofono di I, io) e così via. Le considerazioni tecniche si alternano alle testimonianze dei superstiti della produzione originale (tra cui l'attore James Karen, che figurò come comparsa nella scena in esterni insieme alla moglie di allora Susan Reed, meglio noto al sottoscritto per il suo ruolo di regista e scopritore di talenti in Mulholland Drive) e al materiale d'archivio (tra cui alcune rarissime tracce audio con la voce di Beckett, allergico ad ogni tipo di registrazione al limite della fobia).

Oltre a fornire una quantità impressionante di informazioni tecniche e storiche che farebbero la gioia di qualunque cinefilo, Lipman raccoglie la sfida interpretativa lanciata da Beckett e amplia il discorso sul piano filosofico, proponendo il motto Esse est percipi (essere è essere percepito) del filosofo George Berkeley come punto di partenza per capire il Film di Beckett. L'accavallarsi di indagine e interpretazione, dati fattuali e osservazioni personali, fa di Notfilm un progetto allo stesso tempo informativo e personalissimo, a testimonianza del fatto che il mestiere del restauratore non si svolge soltanto in oscuri laboratori fotochimici. Al contrario, come ha tenuto a precisare lo stesso Lipman, troppo spesso si pensa al restauro come a un lavoro puramente tecnico, dimenticando che il risultato finale è frutto di scelte personali e in certa misura arbitrarie, un po' come accade (ma questa è una mia illazione) nel processo traduttivo. Lo stesso titolo Notfilm, oltre ad essere un gioco di parole sul titolo del monologo teatrale Not I di Beckett, è un esplicito riferimento al progressivo abbandono della pellicola nel cinema contemporaneo in favore del formato digitale.

Beckett e Keaton sul set di Film (il fotogramma è tratto da Notfilm di Ross Lipman).
Un altro aspetto che ho apprezzato molto è il continuo parallelismo con altre opere del cinema muto che in modi diversi affrontano il tema dello sguardo e della mutata percezione del sé in relazione all'invenzione del cinema, in particolare la commedia Il cameraman del 1928, dove Buster Keaton interpreta un cineoperatore imbranato e involontariamente avanguardista, nonché il documentario sperimentale Man with a Movie Camera dell'anno successivo, realizzato dal regista sovietico Dziga Vertov insieme al direttore della fotografia Mikhail Kaufman, fratelli maggiori del Boris Kaufman che curò la fotografia di Film.

E tuttavia, mentre mi sforzavo di seguire Lipman nei suoi voli pindarici da Beckett a Vertov passando per Berkeley, la mia memoria seguiva percorsi molto meno accademici, per planare infine sul ricordo sepolto di un vecchio telefilm visto anni e anni fa: si tratta dell'episodio "Mirror Mirror" (aka "Lo specchio") della spielberghiana serie a metà tra fantascienza e horror Amazing Stories (Storie Incredibili) trasmessa dalla televisione italiana dal dicembre 1993 al febbraio 1995, quando avevo circa dodici anni. Il telefilm in questione non avrebbe nulla di straordinario, se non fosse che rappresenta la prima esperienza come regista televisivo nientemeno che di Martin Scorsese. Tutto questo l'ho appreso molto tempo dopo con opportune ricerche in rete, perché tutto ciò che ricordavo erano soltanto 24 minuti di puro terrore.

Mirror, mirror di Martin Scorsese.
Racconta di uno scrittore di storie horror di arroganza rara che viene perseguitato da strane visioni: ogni volta che si specchia compare alle sue spalle una sorta di mummia-fantasma con intenzioni omicide, che però scompare nell'istante in cui si volta (va detto che la mummia è la copia mal riuscita di Darkman). Pur non credendo a una sola parola della sua storia, l'ex moglie lo aiuta a rimuovere ogni specchio presente nell'appartamento, sperando di scongiurare quello che sembra un imminente crollo nervoso, ma la precauzione si rivela del tutto inutile perché il mostro continua a palesarsi su altre superfici riflettenti, ogni volta sempre più vicino e minaccioso: le piastrelle del bagno, il rubinetto lucido del lavandino, perfino l'obbiettivo di una cinepresa. Oscurate anche queste superfici crede finalmente di essere al sicuro, finché alla fine dell'episodio (devo davvero urlare allo spoiler?) vede riflesso il mostro-assassino negli occhi dell'ex moglie: il mostro è in realtà lui stesso. Lo shock è così terribile che lo induce a suicidarsi gettandosi dalla finestra.

Non ha proprio l'aria di un horror da togliere il sonno, vero? Effettivamente rivisto a distanza di anni non ha avuto lo stesso impatto, anzi per certi aspetti l'ho trovato perfino ridicolo, specialmente il make-up raffazzonato del mostro e l'improbabile tuffo carpiato che pone fine alle allucinazioni del protagonista. Però ho intuito perché l'Ivan dodicenne fosse rimasto così turbato da quella storia: l'idea che in presenza di una qualsiasi superficie riflettente un essere maligno potesse agguantarmi era semplicemente spaventosa. Ricordo addirittura che appena terminato il film la semplice operazione di lavarmi i denti prima di andare a letto mi riempiva di terrore, perché ero assolutamente certo che nello specchio avrei visto un volto coperto di bende sanguinolente. Nient'altro che fantasie infantili, certo; eppure mi rimane la sensazione che il telefilm che ho visto da bambino e la versione innocua recuperata a distanza di anni siano sostanzialmente due film diversi; in qualche angolo buio della mia testa c'è un mostro bendato che aspetta il momento giusto per uccidermi, come un proiettile incastrato nel cranio in attesa di risvegliarsi.

Perché questa storia mi sia tornata in mente proprio durante la visione di Film è evidente: il protagonista rifugge le superfici riflettenti esattamente come lo scrittore di Mirror Mirror, specialmente quando si tratta di occhi, specchi e obbiettivi, e in entrambi i film c'è un mistero che circonda l'identità di un persecutore nascosto in un "fuori campo" su cui il protagonista non ha alcun controllo. Perfino la rivelazione finale coincide: vittima e assassino sono in fin dei conti la stessa persona. E chissà che guardando la versione restaurata di Film anche Scorsese non sia stato colto dalla stessa epifania.



Se la fantascienza trash anni '90 è la vostra tazza di tè, o se vi piacciono le storie di specchi, qui trovate l'episodio di Amazing Stories che mi turbò il sonno (non fatevi scoraggiare dall'inglese, la sceneggiatura non è imprescindibile).

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