Per molto tempo ho creduto che l'emissione di gas intestinali potesse assolvere un'unica funzione all'interno in un film: far ridere. La mia era una visione miope e piena di pregiudizi, e ad aprirmi gli occhi è stato 35 shots of rum (2008) della regista francese Claire Denis, bellissimo film su quella delicata fase di transizione che attraversano genitori e figli quando questi ultimi diventano abbastanza maturi e indipendenti da abbandonare il nido familiare per costruirsene uno per conto proprio. Ebbene, Denis inserisce una scena apparentemente fuori luogo in cui il padre di famiglia, ritrovatosi da solo nell'appartamento del vicino di casa nonché fidanzato della figlia, si accomoda sul divano ed emette un peto sonoro. L'intento della regista qui non è certo quello di suscitare il riso, ma piuttosto di esprimere per mezzo di un gesto primitivo e fortemente simbolico la gelosia di un padre che marca il territorio in casa del suo rivale, o almeno questa è stata l'interpretazione che io ne ho dato. Non stupisce che tra le principali fonti di ispirazione Denis citi proprio il regista giapponese Yasujirō Ozu, autore della commedia Buon giorno (1959) dove l'emissione di peti, stimolati dall'ingestione di pietra pomice polverizzata (!) rappresenta per i giovanissimi protagonisti un importante momento di condivisione e di crescita.
In effetti, più ci penso e più mi sembra che questa sia la regola, non l'eccezione: in questo momento non mi viene in mente neanche un film in cui il peto funga da espediente comico (forse qualche Bud Spencer?). Non so che tipo di approccio abbia adottato Spielberg nel trasporre sul grande schermo quell'indimenticabile favola per bambini che è Il Grande Gigante Gentile (non permetto a nessuno di adulterare il mio immaginario infantile, sorry) certo è che i "petacchi" che il gigante serbava in enormi barattoli di vetro con tanto di etichetta, come una sorta di impalpabile conserva, costituivano uno degli elementi più vividi e memorabili del grottesco universo concepito da Roald Dahl. Fino ad arrivare a La grande abbuffata di Marco Ferreri, dove le roboanti pernacchie che funestano le interiora dei convitati, gravate dagli eccessi di cibo e bevande, sono le trombe che annunciano l'imminente apocalisse. Ebbene sì, che ci piaccia o no anche una flatulenza può avere una precisa funzione narrativa.
Swiss Army Man addirittura ne fa, fuor di metafora, il motore propulsore della storia. È risaputo che un corpo in cui si sia spenta la scintilla della vita non giace semplicemente in un muto immobilismo, ma dopo qualche tempo inizia a contorcersi, a gonfiarsi, e a diffondere nell'aria una sinfonia grottesca di suoni e odori che mal si concilia con la riflessione sulle cose ultime. Solitamente questo è il momento in cui le pompe funebri si affrettano a richiudere il coperchio della bara, risparmiando ai viventi il rumoroso, flatulente spettacolo della decomposizione. E se invece queste manifestazioni postume del corpo, anziché decretare la fine di tutto, fossero l'inizio di una nuova vita? Se i rumori provenienti dalle viscere del defunto fossero una richiesta di soccorso, un maldestro tentativo di stabilire un dialogo con chi è disposto ad ascoltare, e magari un modo scherzoso per sdrammatizzare tutta questa faccenda della morte? D'altra parte chi meglio di una vittima di un naufragio sull'orlo della disperazione, più prossima alla morte che alla vita, può provare affetto per un corpo che si esprime soltanto attraverso spasmi e borborigmi, di cui intuisce le illimitate potenzialità al di là del fetore della putrefazione?
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